Page 199 - La Massoneria Rivelata
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Duse.  Foscarina,  la  protagonista  femminile  è,  come  la  Duse,
                un’attrice  destinata  a  innamorarsi  morbosamente  di  Stelio

                Effrena (leggi D’Annunzio) e a donargli «il meglio della propria

                esistenza».  La  passione  esplode  in  una  Venezia  torbida  e
                sensuale,  dove  gli  echi  del  passato  e  lo  splendore  dell’arte

                s’accordano  a  struggenti  paesaggi  autunnali.  Nelle  vicende  di
                questo voluttuoso e tormentato idillio vi è una sorta di presagio,

                avvertito  dalla  donna  in  un  inquietante  labirinto  vegetale
                «estrinsecazione delle pulsioni sadiche del protagonista Stelio e

                […]  deflagrazione  delle  paure  erotiche  e  delle  pulsioni
                masochistiche della femmina amante». La descrizione del luogo

                si sposa allo stato d’animo angosciato di Foscarina, cosicché la
                paura, l’orrore sono visti «come fonte di diletto e di bellezza»:

                «Ella  cercò  qua  e  là  le  radure  per  ficcarvi  lo  sguardo.  Non
                scorgeva se non la trama spessa dei rami e il rossore del vespro

                che gli accendeva tutti da una banda mentre l’ombra dall’altra li
                annerava.  I  bussi  e  i  carpini  erano  commisti,  le  foglie  sempre

                verdi  si  confondevano  con  le  morienti,  quelle  più  fosche  con

                quelle  più  pallide,  in  un  contrasto  di  vigore  e  di  languore,  in
                un’ambiguità  che  aumentava  lo  smarrimento  della  donna

                ansante  […].  Ella  si  volse,  corse,  girò,  tentò  di  penetrare  la
                muraglia,  allargò  la  fronda,  spezzò  un  ramo.  Non  vide  nulla

                fuorché l’intrico molteplice ed uguale. Udì infine un passo così
                da  presso  che  pensò  di  averlo  alle  spalle,  e  trasalì.  Ma

                s’ingannava.  Esplorò  anche  una  volta  l’irrimediabile  carcere
                arboreo che la serrava, ascoltò, attese; udì il proprio anelito e il

                battito  dei  suoi  polsi.  Il  silenzio  era  divenuto  altissimo.  Ella
                guardò il cielo che si curvava immenso e puro sulle due pareti

                ramose  in  cui  ella  era  prigione.  Pareva  che  non  vi  fosse  al
                mondo  se  non  quell’immensità  e  quell’angustia.  Ella  non

                riusciva  a  separare  col  suo  pensiero  la  realtà  del  luogo
                dall’immagine  del  suo  supplizio  interiore,  l’aspetto  naturale

                delle cose da quella specie di vivente allegoria creata dalla sua

                propria angoscia».


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