Page 87 - Storia della Russia
P. 87
dell’umanità. Nel villaggio la vita era strettamente legata alla natura: l’izba, costruita
intorno alla grande stufa, spesso con pavimento di terra e a volte senza camino, attraverso
un capanno portava direttamente al cortile fangoso, all’orto e alla strada non lastricata del
villaggio. Le fattorie della Grande Russia erano in genere raggruppate lungo un fiume o
una strada. I contadini vivevano tutti insieme, senza privacy, in famiglie allargate. Un gran
numero di persone era stipato in piccole abitazioni infestate da insetti, e maleodoranti
specialmente d’inverno quando gli ingressi erano tenuti chiusi e nell’aria stantia si
mescolavano fumo, odori corporei e di cibo. Le malattie erano all’ordine del giorno; i
bambini morivano con enorme frequenza. D’altra parte, però, si usava regolarmente il
bagno di vapore e nei periodi tranquilli la dieta base del contadino, ben bilanciata,
preveniva lo scorbuto che tanto si diffondeva fra i cittadini e le forze armate.
Era la tipica vita comunitaria, con la terra in comune, divisa («ripartita») tra le famiglie,
che oltre a creare spirito di cooperazione portava spesso a litigi e conflitti. La comunità
(mir) e la sua assemblea (mirskoj schod), che regolavano gli affari del villaggio, davano a
ogni capofamiglia il diritto di esprimere le proprie opinioni. Dopo queste assemblee,
spesso molto vivaci, l’anziano del villaggio o gli uomini più importanti annunciavano le
decisioni prese dalla maggioranza. La vodka e altre indebite influenze avevano un peso
notevole: i villaggi erano governati da legami di parentela, rapporti economici, sociali e
clientelari, da una vita politica propria. Regolava i rapporti personali all’interno della
comunità il diritto consuetudinario, non quello statale, e contemplava pene come
l’umiliazione pubblica. Emersero poi le élite di villaggio: alcuni servi della gleba, in
particolare alla fine del XVIII e nel XIX secolo, divennero ricchi imprenditori, che
possedevano a loro volta servi della gleba; ma siccome per legge non potevano avere
proprietà in uomini o immobili, intestavano i loro beni al padrone, cui non dispiaceva per
niente di possedere servitori così abbienti e usufruire di queste ricchezze registrate a suo
nome. Si è discusso a lungo delle disparità economiche e della mobilità sociale all’interno
della classe contadina, soprattutto da quando i marxisti sovietici individuarono nella
crescente differenziazione lo sviluppo di relazioni capitalistiche nelle campagne. Oggi la
maggior parte degli studiosi considera cicliche le differenze di ricchezza, che riflettono le
dimensioni delle famiglie e il conseguente potenziale di lavoro.
La vita familiare era a forte impronta patriarcale e la violenza all’ordine del giorno. Le
relazioni sui villaggi del XIX e XX secolo mostrano nei rapporti umani, all’interno e
all’esterno della famiglia, un tipico egoismo senza cedimenti sentimentali, che diveniva
ancora più accentuato nei confronti degli estranei. Le risorse erano scarse e l’autorità
esterna arrogante e brutale: i contadini, arrendevoli al potere quando lo incontravano, si
comportavano in modo arrogante e brutale anche nei confronti dei propri parenti quando
avevano occasione di esercitare essi stessi il potere. Era in genere la religione, invece, a
ispirare atteggiamenti compassionevoli: monaci itineranti, pellegrini e questuanti «in
nome di Cristo» non venivano quasi mai scacciati e i detenuti che marciavano in catene
sulla lunga strada per la Siberia ricevevano facilmente elemosine. Cooperazione e
solidarietà apparivano quando era in gioco l’interesse di tutto il villaggio – le vittime degli
incendi, ad esempio, venivano aiutate a rimettersi in sesto perché potessero poi pagare la
loro parte di tasse. Il capofamiglia (bol’šak) godeva di un illimitato potere dispotico, che
crebbe ulteriormente dalla fine del XVII secolo, quando l’economia della servitù
incoraggiò famiglie allargate di più generazioni: i proprietari terrieri si sentivano garantiti