Page 86 - Storia della Russia
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balie, alle cui amorevoli cure venivano affidati per anni i figli dei nobili. La letteratura
russa ce ne offre vividi ritratti: il più famoso resta forse quello della bambinaia di Tat’jana
nell’Evgenij Onegin (1823-1831) di Puškin. Il racconto di Ivan Turgenev Mumu (1852),
all’opposto, narra di un contadino corpulento, gentile e muto (simbolo di tutta la sua
classe), costretto a subire i soprusi di una padrona spietata ed egoista. In Contadini (1897)
di Čechov la cupa immagine della vita rurale dopo l’emancipazione contraddice, a sua
volta, le idealizzazioni di Tolstoj.
Solo una piccola minoranza di contadini poteva viaggiare liberamente e le fughe
illegali, frequenti per tutto l’inizio dell’epoca moderna, avvenivano per i motivi più
disparati: condizioni intollerabili o la speranza di trovarne di migliori altrove, voci
sull’esistenza di terre libere o la volontà di sottrarsi alla punizione per un crimine
commesso. Dopo il 1649 fecero la loro comparsa investigatori incaricati di rintracciare i
fuggiaschi con l’aiuto, se necessario, delle forze militari; continuarono a essere attivi fino
agli anni Settanta del Settecento, quando le loro funzioni furono assorbite dal governo
locale. Nella sola provincia di Kazan’ negli anni 1722-1727 furono catturati 13.188
contadini maschi in fuga. A volte le bande di fuggiaschi si scontravano violentemente con
esercito o polizia e le spedizioni militari per il loro recupero si spingevano persino oltre il
confine polacco. Alla frontiera meridionale, e dovunque servisse altra manodopera, le
autorità, invece, si dimostravano spesso restie a riconsegnare fuggiaschi utili ai loro
padroni. L’atteggiamento degli stessi contadini verso i fuggitivi era dunque ambivalente: il
sistema della responsabilità collettiva, che risaliva all’epoca kieviana, e ancora in vigore,
obbligava i contadini rimasti a pagare le tasse anche per chi era scappato, e ricompense
sostanziose erano offerte a chiunque denunciasse o facesse catturare i fuggiaschi.
La vita della maggior parte dei contadini che non scappavano orbitava intorno al
villaggio: la loro esistenza era tutta concentrata lì. Nei villaggi più grandi la chiesa del
paese aveva un ruolo centrale, ma in epoca imperiale, specialmente al nord, i centri erano
spesso molto piccoli: si trattava per la maggior parte di borghi di cinque o sei case. I
villaggi delle steppe, invece, erano di norma più popolosi. Al loro interno l’unità di base
era costituita dalla famiglia e dalla sua fattoria. Il mondo contadino era un universo
analfabeta, figurativo e spirituale, rafforzato da credenze animiste e dalla magia, popolato
di santi e spiriti, dove a scandire gli anni erano le stagioni, le festività sacre e il ciclo
agricolo. Ogni contadino aveva un «angolo bello» con le icone alle pareti, ma rispettava
anche il domovoj o folletto della casa.
L’insegnamento ortodosso era vincolante, sebbene spesso mal compreso, e i contadini,
salvo rare eccezioni, rimasero estranei alla secolarizzazione e alle aspirazioni imperiali
della nuova cultura dell’élite di Pietro I. L’esistenza contadina aveva le proprie norme
estetiche, le proprie tradizioni di musica, danza e cultura materiale. Le donne tessevano
stoffe e nastri con disegni e colori straordinari; gli uomini erano abilissimi nel lavorare il
legno (lo strumento tipico dei contadini era l’ascia, non la sega). La casa del contadino,
nel nord spesso a due piani, era in genere una capanna di un solo piano (izba) costruita con
ciocchi di legno, dal tetto di scandole o paglia, e a volte decorata con complessi intarsi.
Nel sud, fuori dalla zona boschiva, erano diffuse costruzioni in fango e argilla imbiancate
a calce. Nelle foreste della Russia l’edilizia contadina, che adoperava quasi
esclusivamente il legno, possedeva forme e tradizioni proprie, il cui apice fu rappresentato
dalla famosa chiesa della Trasfigurazione (1714), a Kiži sul lago Onega, ora patrimonio