Page 243 - Storia della Russia
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definendo così l’assetto postbellico europeo. Il trionfo di Brežnev fu in parte
ridimensionato dall’inclusione negli accordi di una clausola sul rispetto dei diritti umani
previsti dalla Carta delle Nazioni Unite: in pratica, più una provocazione che un limite
reale al regime di polizia degli stati sovietici ed esteuropei. Il secondo obiettivo, il
controllo delle «democrazie popolari», fu raggiunto dosando forza militare e integrazione
economica: l’Armata rossa represse le rivolte di Berlino nel 1953, in Ungheria nel 1956 e
(insieme agli alleati del Patto di Varsavia) in Cecoslovacchia nel 1968; legami economici
furono stretti e sviluppati attraverso gli scambi commerciali, il concordato dei prezzi e la
fornitura sovietica di materie prime, soprattutto petrolio. Tuttavia, i paesi del Comecon
mantennero il governo della propria pianificazione economica. I fatti di Praga del 1968
diedero avvio alla «dottrina Brežnev»: l’Unione Sovietica si riservava il diritto di
intervenire militarmente ovunque i governi comunisti in carica fossero minacciati. Dagli
anni Settanta in poi, il timore di un intervento militare frenò il cambiamento che si stava
delineando in Polonia e solo la dichiarazione ufficiale del Cremlino che non avrebbe usato
la forza aprì la strada ai mutamenti politici esteuropei del 1989.
Si invocò la dottrina Brežnev anche nel 1979, in appoggio al nuovo regime comunista
in Afghanistan: ma il tentativo di applicare la dottrina al di fuori dell’«impero esterno»
sovietico provocò una decisa reazione occidentale, che si espresse anche in sanzioni
commerciali – sospensione delle forniture di grano – e nel boicottaggio delle Olimpiadi di
Mosca nel 1980. Il conflitto afghano si trasformò rapidamente in un disastro, un «Vietnam
sovietico», una lotta contro la guerriglia islamica già persa in partenza, che riscosse
sempre minori consensi in patria e fu conclusa da Gorbačëv con il ritiro delle truppe
sovietiche nel 1988.
I fatti della Cecoslovacchia, la dottrina Brežnev e la guerra in Afghanistan erano lo
specchio delle relazioni dell’Unione Sovietica con il resto del mondo comunista; tuttavia,
l’alleato più difficile per Mosca si rivelò la Cina. La rivoluzione di Mao Tse-tung nel 1949
diede grande impulso al comunismo mondiale, ma divenne presto fonte di scontri e
rivalità con l’Urss. La Cina, infatti, era un vicino potente, con interessi geopolitici propri e
una leadership che non era disposta ad assoggettarsi a Mosca né dal punto di vista politico
né ideologico. Nel 1964 si dotò di armi nucleari. Dal 1958, mentre Chruščëv perseguiva la
«distensione» con quella che Mao chiamava la «tigre di carta» americana, le relazioni
peggiorarono, fino a giungere a un’aperta rottura ideologica e a gravi scontri al confine
cino-sovietico nel 1969-1970. Le cose si riaggiustarono negli anni Settanta e, sotto
Gorbačëv, quando gli stessi cinesi erano divenuti più «revisionisti», si giunse a un
ulteriore riavvicinamento. Anche la posizione indipendente della nuova Jugoslavia
comunista di Tito, espulsa dal Kominform nel 1948, era una sfida per l’egemonia sovietica
nel «campo socialista»; nel 1955 si giunse a una parziale riconciliazione. Anche Albania e
Romania, e alcuni esponenti dei partiti comunisti occidentali (soprattutto quello italiano),
dopo il 1968 rifiutarono di assoggettarsi completamente.
In questo periodo l’altra area di interesse sovietico era il Terzo Mondo, non allineato.
Opporsi all’«imperialismo» comportava l’appoggio ai movimenti di liberazione nazionale
e ai regimi socialisti, potenziali partner commerciali e mercati per le esportazioni e la
vendita di armi. Non si trattava per l’Urss di vitali questioni di sicurezza, ma solo di un
modo per competere con il mondo capitalista ed estendere il potere sovietico a livello
planetario. La decolonizzazione dell’Africa e dell’Asia dopo la guerra offriva grandi