Page 206 - Storia della Russia
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alle politiche zariste di «russificazione», l’autonomia nazionale, culturale, linguistica e
territoriale aveva lo scopo di legittimare il «potere dei soviet» e riconciliare le minoranze
– in particolare la classe contadina – con il nuovo stato: l’evoluzione doveva essere
«nazionale nella forma, socialista nel contenuto». Durante la NEP, nelle zone musulmane si
adottò una politica particolarmente conciliante. Nel corso del primo piano quinquennale i
massicci investimenti nelle repubbliche (maggiori che al centro) portarono a un notevole
sviluppo industriale grazie al coinvolgimento di un gran numero di operai appartenenti
alle minoranze: la forza lavoro industriale era a quel punto per la maggior parte locale e
non più russa come in precedenza. Le autorità sovietiche sostennero anche l’istruzione
nelle varie lingue nazionali, sistematizzate e modernizzate, e intrapresero ampie campagne
di alfabetizzazione: fu un’impresa enorme dall’impatto sociale radicale e duraturo.
Aumentò anche il numero di quadri appartenenti a minoranze nazionali, che avevano una
carica all’interno del partito. Queste misure, tuttavia, sortirono effetti imprevisti.
Soprattutto nelle regioni orientali meno sviluppate, la nuova centralità data alle lingue
locali separò i gruppi etnici autoctoni dai loro vicini russi, spingendoli ad attendersi uno
sviluppo che corrispondesse alla loro cultura e ai loro valori. Le identità non russe si
rafforzarono e le differenze nazionali finirono per politicizzarsi: così negli anni Venti
l’Ucraina sviluppò per la prima volta una chiara identità nazionale con un’élite propria
(anche se in Ucraina e in Bielorussia la lingua russa rimase forte). Inoltre, i nuovi quadri
appartenenti alle minoranze tendevano ad assecondare gli interessi locali: non si
interessavano tanto al proletariato internazionale definito da Mosca, ma piuttosto alla loro
comunità nazionale; e intanto i russi di quelle zone lamentavano una derussificazione
forzata. Queste tensioni emersero dopo il 1929, quando la collettivizzazione rese
necessario riaffermare l’autorità centrale e pesò gravemente soprattutto sulle regioni
governate dalle minoranze etniche: la maggiore resistenza avvenne proprio a opera dei
non russi. Così, pur continuando ad affermare il principio dell’indigenizzazione, Mosca
iniziò ad attaccare lo «sciovinismo locale» e il «nazionalismo», sottolineando il carattere
liberatorio e non oppressivo di tutto ciò che era russo: nel nuovo contesto socialista,
caduto il giogo imperiale, ciò avrebbe dato accesso ai più alti livelli culturali. Nel 1932
una campagna di terrore prese di mira i quadri «comunisti nazionali», che cercavano di
difendere i contadini dalle eccessive requisizioni di grano (ricordiamo in particolare il
caso di Skrypnyk in Ucraina): ne furono giustiziati moltissimi. La korenizacija, ancora
proclamata in linea di principio, nella realtà dei fatti subì forti limitazioni. Questa
repressione preannunciò il radicale cambiamento di linea politica che sarebbe avvenuto
nel decennio prima della guerra, periodo che fu caratterizzato da pulizie etniche nelle zone
di confine e dalla russificazione amministrativa della RSFSR. Negli anni più feroci del
terrore, 1937-1938, circa il 20% degli arresti e oltre il 30% delle esecuzioni riguardavano
questioni relative alle minoranze etniche.