Page 205 - Storia della Russia
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L’integrazione delle nazionalità:
l’«indigenizzazione» e i suoi problemi
Anche il controllo sovietico delle minoranze nazionali poneva seri problemi. Nel 1917 i
non russi costituivano circa la metà della popolazione dell’impero (56% nel 1897, 47% nel
1927). I bolscevichi avevano denunciato l’impero russo come una «prigione di popoli» e
conoscevano i pericoli dello «sciovinismo grande-russo» verso le minoranze, ma
pensavano che la rivoluzione socialista e l’industrializzazione avrebbero progressivamente
cancellato i sentimenti nazionalistici e le differenze tra le etnie. La formula comunista per
l’organizzazione di uno stato multinazionale, annunciata nel 1923, era divisa in tre punti.
Innanzitutto, il principio «nazional-territoriale» dichiarava ogni nazionalità separata, ma
con pari diritti, sul proprio territorio; l’Unione Sovietica federale doveva essere formata da
repubbliche e regioni basate sulla nazionalità, uno dei segni distintivi nei nuovi passaporti
interni, emessi dal 1932. I gruppi nazionali di qualunque dimensione che non avevano un
territorio a loro riconosciuto, teoricamente, avrebbero dovuto riceverne uno, e in effetti
molti ne furono creati. I compatti insediamenti tedeschi del Volga, ad esempio, vennero
organizzati all’interno della RSFSR nella Repubblica Socialista Sovietica Autonoma dei
Tedeschi del Volga (1924-1941). In secondo luogo ci si occupò anche delle minoranze che
vivevano all’interno di altre nazionalità: così la vasta diaspora ucraina ottenne soviet e
scuole in tutta la RSFSR, oltre a una patria nella RSS ucraina. Mosca sperava che una politica
così aperta, basata sul territorio, avrebbe attirato connazionali delle minoranze dei paesi
vicini, come ad esempio gli ucraini della Polonia. Naturalmente non mancarono i
problemi. L’identità dei circa due milioni di ebrei sovietici era legata alla religione e
potenzialmente al sionismo, e il radicato antisemitismo russo riemerse in forme sovietiche,
soprattutto tra il 1948 e il 1953. Una «patria» sovietica per gli ebrei, la Regione Autonoma
Ebraica di Birobidžan, fu istituita nel 1934 in Estremo Oriente, sull’inquieta frontiera
cinese. Questo significava esiliare gli ebrei in un’area lontana, arretrata e inospitale, e di
conseguenza non suscitò nessun entusiasmo da parte di quel popolo: nel 1979, dei suoi
250.000 abitanti, gli ebrei rappresentavano solo il 5,4%. La politica di mantenimento delle
differenze nazionali come principio organizzativo, ideata per allentare le tensioni interne,
non fece che accentuare potenziali divisioni e rivalità, che negli anni Ottanta divennero
fatali per l’Unione. Secondo la Costituzione del 1924, le nazionalità avevano diritto di
secessione dall’Unione Sovietica; Mosca si assicurò che non lo esercitassero mai.
Per confermare l’autonomia politica nazionale e territoriale, il secondo punto
programmatico assegnava a ogni repubblica dell’Urss un suo partito comunista. Il
controllo politico centrale veniva comunque garantito dalla subordinazione dei partiti delle
repubbliche a quello comunista dell’Unione Sovietica, con sede a Mosca: i russi (che
controllavano il PCUS) erano la sola nazionalità territoriale senza un proprio partito.
Il terzo punto concerneva l’indipendenza e l’uguaglianza delle nazioni che doveva
essere rafforzata dalla korenizacija, l’«indigenizzazione». Lingue e culture nazionali
andavano incoraggiate; i quadri appartenenti alle minoranze etniche dovevano essere
educati e promossi a ruoli dirigenziali all’interno del partito, dei sindacati e del governo,
dove, da bravi militanti, avrebbero appoggiato in loco le politiche di Mosca.
L’indigenizzazione fu una risposta al sottosviluppo e all’ostilità dei popoli non russi, alle
tensioni tra le città russificate e la campagna non russa. In aperta controtendenza rispetto