Page 38 - Federico II e la ribellione del figlio
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crimini pubblici e anzi deve essere considerato piú
orribile dello stesso crimine di lesa maestà, perché deve
essere visto come attentato all’essenza della maestà
divina (divine maiestatis materiam) […]. 37
Ma l’eresia viene elevata a crimine supremo anche
perché in essa è assorbita e compendiata ogni altra forma
di infedeltà, anche politica. Da tutto ciò la previsione di
pene atroci per i colpevoli (morte sul rogo) e
l’estensione delle sanzioni ai discendenti, puniti col
marchio dell’infamia perpetua e la perdita dell’eredità.
Disposizione quest’ultima che, pur in un tempo di
attenuata legalità, fu avvertita come oggettivamente
iniqua, tanto che Marino da Caramanico, primo
commentatore della norma, tentò di difenderla
individuandone la ratio, non piú nel consolidato
principio filius non praesumitur quod sit dissimilis a
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patre, ma in quello della maggiorata deterrenza di cui
veniva cosí munito il precetto penale: «infatti il
legislatore ha ritenuto di porre un freno all’inclinazione
delittuosa dei padri con la minaccia della pena ai figli;
infatti il padre è piú atterrito per il figlio che per se
stesso». 39
Dal punto di vista processuale la novità fu
l’introduzione dell’inquisizione e l’abbandono della
logica accusatoria, di ascendenza giustinianea,
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dominante tra i glossatori e sino ad allora nettamente
privilegiata dallo stesso Federico («coloro che si trovino
ad essere oggetto anche soltanto di sospetto […] se non