Page 17 - Federico II e la ribellione del figlio
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A       soccorrere            Federico           e       sostenerlo           nel

                convincimento  delle  sue  indiscutibili  buone  ragioni  di

                padre  –  per  lui,  cosí  desideroso  d’incarnare  in  tutto  il

                Cesare romano – era la tradizione culturale e giuridica

                dell’antica Roma. Viene da Gaio, sommo giurista del II
                sec. d.C., la piú sintetica descrizione del modo in cui i

                Romani intendevano il rapporto padri-figli: «i figli […]

                sono  in  nostra  potestà.  Questo  è  un  diritto  proprio  dei

                cittadini  romani.  Non  ci  sono  infatti  altri  uomini  che

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                abbiano  un  tale  potere  sui  loro  figli  […]».   L’aspetto
                piú significativo di tale potere era la perennità, nel senso

                che la patria potestà si estingueva solo con la morte del

                padre  e  che  quindi  si  esercitava  sui  figli  anche  adulti,

                anche  assurti  ad  alte  cariche  pubbliche,  e  sulla  loro

                discendenza,  senza  limiti  di  tempo  e  d’intensità.  Tutto

                era nel suo potere assoluto, non solo i beni materiali, ma

                anche le piú intime scelte dei figli, e dei figli dei figli,

                maschi  o  femmine  che  fossero.  Era  insomma
                un’illimitata vitae necisque potestas. Competeva, infatti,

                al  padre  decidere  le  unioni  matrimoniali  e  finanche  le

                separazioni.

                      Una  tale  condizione  ovviamente  finiva  per  nutrire

                una  latente  insofferenza  dei  figli  verso  i  padri,  spinta

                sino a vagheggiare e non di rado ad attuare il parricidio.

                Derivò da ciò la previsione di una pena particolarmente

                crudele per i parricidi: il culleo. Federico la inflisse ad

                alcuni  partecipanti  alla  congiura  di  Capaccio,  da  lui
                equiparati ai parricidi («questi che, con dolcezza paterna,


                abbiamo nutrito come figli, li abbiamo gettati nel vicino
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