Page 95 - Federico II - Genio dei tempi
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e  il  suo  prestigio,  una  identità  straordinaria  e  ben  riconoscibile.  Altri
          nomi suggestivi per gli storici spiccano nella cerchia siciliana dei poeti:

          i d’Aquino e in particolare Rinaldo, lodato da Dante e forse fratello del
          futuro santo, il teologo e filosofo Tommaso, Pier delle Vigne e il figlio di
          Federico, Enzo re di Sardegna.
             Pier delle Vigne, protonotaio di Federico e fino al 1247 giudice della

          Magna Curia, vittima delle calunnie di corte fu accecato e morì in un carcere
          toscano forse suicida. Dante che lo conosceva bene attraverso i suoi scritti
          epistolari - Brunetto Latini ne aveva tradotti alcuni dei più significativi -
          nel Canto XIII dell’Inferno, usando la stessa sapienza retorica di cui Pier

          delle Vigne era maestro ammirato, rende omaggio a un uomo che egli
          ritiene innocente dalle calunnie di corte e terribilmente colpevole invece
          per il suo gesto suicida: «l’animo mio per disdegnoso gusto credendo
          col morir fuggir disdegno ingiusto fece me contra me giusto». Pier delle

          Vigne si palesa a Dante come «colui che tenne ambo le chiavi del cor di
          Federigo», sempre fedele al suo re e abbattuto soltanto dall’invidia dei
          cortigiani. Lontano da questa infernale immagine - Piero è come gli altri
          suicidi ridotto a un arbusto con i rami grondanti scuro sangue - risuonano

          le sue stanze d’amore. «Amore in cui disio ho e speranza di voi, bella, m’ha
          dato guiderdone e guardomi infinché vegna allegranza pur aspettando
          bon tempo e stagione...». E nella Descriptio virtutum rosae et violae Pier
          delle Vigne aveva sfoggiato tutto il suo stile ricco di metafore, parallelismi,

          allitterazioni e figure per lodare la terza sposa del suo ben amato signore,
          la regina Isabella d’Inghilterra.
             Tristissima è pure la fine di un altro poeta, Enzo figlio di Federico, vicario
          imperiale, catturato nel 1249 dai bolognesi durante la battaglia di Fossalta.

          In quella drammatica occasione Federico scrive ai vincitori una lettera
          emozionante dove riflette, certo memore di Boezio, sulla «fortuna che
          ora abbassa gli uomini ora li eleva» e ammonisce i nemici che avevano
          imprigionato il suo bello e carissimo figlio a non insuperbire per il momento

          prospero e vittorioso. E subito dopo ricorda loro con orgoglio che lui è
          «Federico ovunque vincitore» e li minaccia qualora disobbediscano agli
          «ordini della sua potenza» di lanciare contro Bologna un grande esercito.
          Conclude dicendo che se i bolognesi rifiutano di ridargli il figlio Enzo

          «trascineranno la loro onta in eterno». Sembra che i cittadini di Bologna
          abbiano risposto che «spesse volte accade che un piccolo cane catturi
          un cinghiale»: si tennero Enzo ad umiliazione del loro nemico rifiutando
          un immenso tesoro di argento e qualsiasi altro scambio.

             Dopo ben ventitré anni di prigionia a Bologna, Enzo muore in carcere.
          Un carcere non durissimo e forse ancora addolcito da speranze di libertà



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