Page 91 - Federico II - Genio dei tempi
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«Lo vostro amore mi tene / ed hami in sua segnoria / ca lealmente
          m’avene / d’amor voi senza falsia / di me vi sia rimembranza». Sono i versi,

          aggraziati ma convenzionali, di Federico imperatore nettamente inferiori
          a quelli del massimo poeta della sua cerchia, il notaio Iacopo da Lentini,
          autore del sonetto che riecheggerà per lungo tempo, l’imitatissimo Amor
          che è un desio che ven da core per abbondanza di gran piacimento...

             Ma conviene ricordare un altro componimento di Federico, un sonetto
          che è una vera lezione sul tema così discusso in quei tempi della vera
          nobiltà, Misura provvidenza e meritanza.
             Misura provvidenza e meritanza / fa essere l’omo savio e conoscente /

          e d’ogni nobiltà l’omo si avanza / e ciascuna richeza fa prudente / Né di
          richeze aver grande abundanza / facia l’omo eh’è vile essere valente / ma
          dell’ordinata costumanza / discende gentileza fra la gente. / Omo ch’è
          posto in alto signoragio / ed in richeze abunda tosto scende / credendo

          fermo stare in signoria. / Unde non salti troppo omo ch’è sagio / per
          grande alteze che ventura prende / ma tuttora mantegna cortesia.
             Non potrebbe essere espresso meglio di così e in poche righe il pensiero
          dell’imperatore sul tema: l’esercizio gentile, misurato e intelligente delle

          ricchezze e del potere ricevuto dagli avi - qualcosa che Federico non può
          non apprezzare ed esalta più di una volta - non solo conserva questi beni
          ma porta a compimento la vera nobiltà.
             Nel 1238, scrivendo al figlio Corrado, l’imperatore ribadisce l’idea che la

          nobiltà individuale o virtus deve accompagnarsi sempre all’ascendenza
          illustre, ma che tuttavia questa «non è sufficiente se non è irrobustita dalla
          generosità  (magnanimitas)  e  da  un  comportamento  attivo  e  capace».
          Anzi, la nobiltà di sangue priva di virtù individuale è nel nobile non solo

          insignificante ma colpevole proprio perché lo spirito dei nobili è in potenza
          più capace e ben disposto: l’esercizio della virtù è insomma, per chi ha
          alle spalle illustri avi, un dovere sociale al quale egli non può sottrarsi.
          Il capuano di umili origini Pier delle Vigne, il consigliere più intimo di

          Federico  e  anch’egli  poeta,  pensava,  in  questo  e  altro,  come  il  suo  re
          nonostante il suo iniziale svantaggio sociale. Era l’ideologia che circolava
          nella corte federiciana con la teoria espressa limpidamente dal giudice
          Riccardo da Verona:

             Non badare alla origine del corpo ma a quella dello spirito perché la
          nobiltà deriva dall’anima. Anche se la tua origine è altissima la tua nobiltà
          non ha alcun valore se sei privo di spirito; al contrario se un uomo dotato
          di ingegno è nato nel fango e nel letame la sua nobiltà è autentica. La

          stirpe non è superiore all’ingegno ma l’ingegno lo è alla stirpe: cosi è per
          il vero nobile.



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