Page 90 - Federico II - Genio dei tempi
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una lingua parlata e familiare, comunicatrice di affetti e di informazioni
vitali e quotidiane (come osserva il Salimbene), in una lingua «stabilita»,
con regole rigorose e inequivocabili come quelle del latino. Il tema sarà
magistralmente svolto da Dante nel De vulgari eloquentia nei primi anni del
Trecento e anticipato da una digressione del Convivio. Il progetto iniziale
del De vulgari eloquentia prevedeva l’analisi dei vari livelli linguistici e
delle forme volgari di uso letterario in quattro libri, ma l’opera come è
noto rimase interrotta all’esame della canzone: Dante probabilmente fu
richiamato altrove, dal grandioso progetto della Commedia.
È proprio la naturalità della lingua volgare appresa nell’infanzia il primo
tema trattato: Dante rovescia genialmente quanto egli stesso aveva già
sostenuto e altri pensavano e dichiara che per la sua spontaneità il volgare
è più nobile del latino, che egli con alcuni suoi contemporanei giudica
una lingua artificiale. Non solo: il volgare, se «illustre» (ossia superiore
ai tanti idiomi delle varie città), è adatto ad esprimere cose massime,
ed è l’illuminante strumento di un ambiente civile e politico, autorevole
come la «reggia», ossia la corte. La poesia in lingua volgare può dunque
descrivere «le vie della salvezza, del godimento amoroso, delle virtù, la
prodezza d’armi, la fiamma d’amore e la dirittura di volontà».
Come i teologi prima di lui, anche Dante traccia la storia della lingua
umana partendo da Adamo nell’Eden prima della Caduta. La lingua
perfetta si è conservata nel popolo ebraico per le stesse ragioni già
dichiarate da altri, «affinché il Redentore nostro che da essi [gli ebrei]
doveva secondo l’umanità aver nascimento fruisse di una lingua non di
confusione ma di grazia». Segue nell’opera l’esame della lingua «triforme»
dell’Europa meridionale: la lingua d’oc, la lingua d’oil e la lingua del sì,
parlate in territori contigui anche se distinte fra loro. Nella lingua del sì
Dante distingue quattordici tipi o esperienze sostanzialmente autonome
e assegna un ruolo alto ed egregio al volgare siciliano, strumento della
scuola poetica di Federico e anticipatore della lingua dello stil nuovo.
Il latino per Dante e gli uomini del suo tempo era la «grammatica», una
lingua artificiale e razionale. Ma era stata appunto la necessità di imparare
la lingua d’oc, lingua dei poeti provenzali e modello per i nuovi poeti della
corte di Federico, a suggerire a Uc Faidit di redarre verso il 1240 una delle
più antiche grammatiche volgari, il Donatz proensals modellato sulla Ars
grammatica di Donato. Uc Faidit guardava alle analisi morfologiche latine
e distingueva nel volgare provenzale le otto classiche parti del discorso
(nome, pronome, verbo, avverbio, participio, congiunzione, preposizione
e interiezione), aggiungendo un dizionario di rime che intendeva essere
utile anche ai poeti siciliani.
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