Page 66 - Federico II - Genio dei tempi
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Dopo il Mille la caccia era diventata in Europa un privilegio di pochi:
un po’ ovunque i signori avevano escluso i contadini dalle aree incolte
pretendendo per sé soli il diritto venandi o costringendo gli abitanti delle
campagne al pagamento di tributi in cambio di temporanei permessi alla
caccia. Anche i sovrani normanni, antenati del nostro imperatore, si erano
distinti nel regno di Sicilia per il rigido controllo su molte attività come la
pesca e la caccia, voci così importanti nel sostentamento degli abitanti
delle campagne.
Nelle terre dell’Islam la caccia era un esercizio riservato ai nobili con
regole e uno stile che Federico conobbe e imitò in parte; il falcone che
vola alto e possiede un’acutissima vista era già l’amato compagno di
caccia dei capi presso le tribù stanziate in Iraq, in Persia e in Siria. Un
illustre e potente contemporaneo di Federico II, Gengis Khan, ogni mese
di marzo compiva una spettacolare caccia con i rapaci che Marco Polo
descrive così:
Mena seco cinquecento girfalchi e falconi pellegrini e astori per uccellare
in grande abbondanza... E il Gran Sire va sopra quattro liofanti in una
bella camera di legno coperta di drappi d’oro e di cuoio di leoni... e quivi
dimora con baroni a suo sollazzo e compagnia. E mentre lo Gran Sire
tiene tutt’avia quivi entro i dodici migliori girfalchi i cavalieri che cavalcano
presso a questa camera dicono al Signore «Sire grue passano» ed allora
egli fa aprire la camera prende i girfalchi e lasciali andare a quelle grue.
Proprio insieme all’imperatore - così sembra - o su suo ordine {mandato
Caesaris) il greco Teodoro di Antiochia, del quale parleremo più avanti,
tradusse in latino il cosiddetto Moamin, un celebre trattato arabo di
falconeria scritto forse dal medico Abù Zayd, che più tardi Enzo, il figlio
di Federico, durante la sua lunga prigionia a Bologna, a sua volta farà
tradurre in volgare francese. Il Moamin è stato senza dubbio, con i suoi
ventisette manoscritti conosciuti, il libro di falconeria più diffuso di quei
secoli in Occidente, ben noto anche per le traduzioni italiane più tarde.
Accanto all’influenza di questo e, in misura minore, di altri testi, Federico
considera come fonti del suo sapere sul tema l’esperienza concreta sua e
di altri che «ha fatto venire a corte da lontano e con grandi spese. Erano
gli esperti in questa arte e i migliori conoscitori dell’argomento: li abbiamo
ascoltati fiduciosi nella loro memoria e nella pratica che avevano fatto».
Si trattava probabilmente di falconieri arabi provenienti dall’Egitto come
l’imperatore ricorda altrove.
Il testo di Federico è sopravvissuto in otto manoscritti, non molti - è
vero - ma il numero è comprensibile se si pensa alla sua mole. Più diffusa
la fama di Federico falconiere, ricordato anche da Alberto Magno nel De
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