Page 61 - Federico II - Genio dei tempi
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sigillo, la cancelleria, il tesoro e il tribunale - e quelle più amabili e care, i
gioielli, le belle vesti, le bestie esotiche, leoni, ghepardi, cammelli, e poi i
cavalli e i muli e gli animali da caccia, cani, poiane e falconi... E infine i suoi
amati libri, fra i quali una copia miniata del manoscritto De arte venandi
cum avibus composta, si dirà poi, «dal nobilissimo e sapientissimo
imperatore».
C’è molta fantasia nelle descrizioni della città di Vittoria - forse simile
nella realtà più a un grande e ben fornito accampamento costruito in
pochi mesi con legno e tende di cuoio che a una vera città di pietra - ma
senza dubbio donne, cavalli, cani, falconi e libri, gli oggetti del suo amore,
questi, Federico li aveva voluti vicino.
L’imperatore mostra una sicurezza che si scoprirà poi infondata: convinto
di poter prender rapidamente la città per fame, consiglia sarcastico ai
messaggeri parmensi di fare economia di grano perché «finché lui
fosse vissuto avrebbero mangiato soltanto quello di cui disponevano» e
fatto ancor più grave agisce con sovrana, è il caso di dirlo, leggerezza e
imprudenza.
Il 18 febbraio del 1248 in una fredda alba esce dal palazzo di Vittoria con
i falchi e i cani in compagnia del figlio Manfredi, allora sedicenne, e di una
cinquantina di cavalieri a caccia di selvaggina nelle campagne vicino alla
città.
Il marchese Manfredi, della nobile famiglia piemontese dei Lancia,
rimane solo con la guarnigione all’interno delle mura di legno, certamente
non molto solide data anche la velocità dell’edificazione: i parmensi
hanno le loro spie che li avvertono della situazione e decidono di fare
una sortita a cavallo per ingannare le guardie. Mentre il Lancia si getta
ad inseguire i cavalieri che corrono su verso i pendii dell’Appennino, tutta
Parma con la forza della disperazione, bambini e donne comprese, esce
di corsa dalle mura e invade Vittoria quasi sguarnita e con i ponti levatoi
abbassati, e dà alle fiamme le costruzioni in legno massacrando con falci
e bastoni i pochi imperiali rimasti. Al gran giustiziere Taddeo da Sessa
sono mozzate le mani prima dell’esecuzione. Gli scampati fatti prigionieri
verranno giustiziati in seguito.
Nella campagna l’imperatore assieme ai suoi compagni di caccia sente,
alto sopra il suono dei campanellini dei falconi, quello più allarmante e
forte delle campane, torna sui suoi passi, entra in Vittoria ma subito vede
sgomento che tutto è perduto. Con soli quattordici cavalieri si rifugia
velocemente a Borgo San Donnino.
È forse questa la più appariscente e grave sconfitta subita da Federico,
oramai cinquantenne, furioso e addolorato come «un orso al quale siano
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