Page 179 - Federico II - Genio dei tempi
P. 179
la duplicità di ambiti di interesse, spirituale e terreno, poneva subito un
problema: a quale autorità dovevano fare riferimento i vescovi investiti
di compiti civili, il papa o l’imperatore? E chi poteva conferire una carica
ecclesiastica, ma dotata di poteri civili? Gli imperatori cercavano di
intervenire nella nomina vescovile, considerando di fatto i vescovi alla
stregua di funzionari dell’impero, ma il papato ribadiva l’appartenenza dei
vescovi al corpo della gerarchia ecclesiastica. È su questo terreno che
per la prima volta nel medioevo un papa e un imperatore si scontrarono
a viso aperto: Gregorio VII e Enrico IV.
Quando papa Gregorio VII (1073-1085) condannò esplicitamente la
prassi dell’investitura di cariche ecclesiastiche ad opera dei laici, rischiò
di mettere drasticamente in crisi un sistema di potere e di governo. Ma
l’origine di questo atto affondava le radici in un’opera di decenni. Gregorio
nella sua azione di riforma era spalleggiato dall’Ordine monastico
cluniacense, nato il secolo prima, che denunciava l’anarchia feudale sorta
dal disfacimento dell’impero carolingio e lo stato di crisi della politica e
della morale. I cluniacensi (dal nome del luogo del loro primo monastero,
Cluny, nella regione francese della Borgogna) aspiravano a una riforma
della chiesa e si sottraevano al controllo dei vescovi e dei potenti locali,
sottoponendosi al giudizio del solo papa. L’appoggio e l’influenza dei
Cluniacensi fu fondamentale nel processo che portò alla metà dell’XI
secolo ad affrancare l’elezione papale dall’influenza imperiale.
A tutto ciò si aggiungeva il desiderio di mettere in atto una riforma
all’interno della chiesa da parte di vari ambienti: troppo spesso le pratiche
simoniache (la compravendita di cariche ecclesiastiche) dilagavano,
anche a causa delle ampie terre delle quali la chiesa locale disponeva. La
volontà da parte dei riformatori era di legare in modo più stretto l’ufficio
ecclesiastico ai diritti e alle proprietà che ad esso erano connessi. Si era
perciò creato un caso di scontro esplicito.
Nel volgere di pochi decenni, la chiesa romana si emancipò dal
privilegio imperiale dell’elezione del pontefice, cosa sancita durante il
sinodo del 1059. I principali esponenti della riforma esprimevano però
idee diverse sul rapporto tra potere temporale e potere spirituale: se Pier
Damiani sosteneva ancora un ideale di collaborazione, Umberto di Silva
Candida sottolineava invece come all’interno di questo rapporto il clero
mantenesse una maggiore dignità e indicasse i modi in cui gli uomini
dovevano agire tra loro.
Nel riprendere tutte queste istanze, Gregorio VH (eletto per altro in
modo difforme da quanto richiesto dalle norme del 1059) volle difendere
la libertà della chiesa. Ma la libertas ecclesiae, intesa come indipendenza
— 173 —