Page 150 - Federico II - Genio dei tempi
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di coerenza estrema, irrealistica e acronica.
             Un esempio: il rapporto di Federico con gli ebrei e con i saraceni.

             Il regno di Sicilia era oggettivamente e nell’ottica di Federico un regno
          cristiano: gli ebrei, mercanti, medici e usurai e anche agricoltori - che come
          «servi della camera reale» godevano della protezione del sovrano e alla
          corte siciliana potevano essere, come Giacobbe Anatoli, maestri ascoltati

          e stimatissimi - nelle ordinanze emanate a Messina nel 1221 venivano
          obbligati  a  indossare  le  vesti  prescritte  che  li  avrebbero  identificati
          visivamente  per  le  vie  della  città  in  forza  della  normativa  del  concilio
          Laterano del 1215 (Canone 68). Era questa una regola applicata e diffusa

          in altre città e regni e sarebbe stato strano che Federico non l’avesse fatta
          valere nei suoi domini. D’altra parte la identificazione attraverso l’abito
          era consueta per molte categorie sociali non solo etniche o religiose nelle
          città del tempo.

             Quando l’imperatore si rivolge con attenzione e stima ai dotti ebrei che
          vivevano a corte - un piccolo gruppo che si distingueva con evidenza
          nella folla dei correligionari - non fa qualcosa di contraddittorio alla sua
          linea politica dato il suo interesse innegabile per la scienza. Un interesse

          primario e sicuramente non decorativo. Federico è uomo, come altri ve ne
          furono in quei secoli - è bene ricordarlo -, che apprezza la élite dei sapienti
          al di fuori della loro appartenenza a gruppi. In questo senso l’imperatore e
          altri uomini del suo tempo erano immuni a mio parere da quei sentimenti

          che oggi definiamo razzisti: un gruppo di uomini poteva essere per motivi
          generali o contingenti considerato nemico o comunque pericoloso, ma
          l’appartenenza al gruppo per nascita o per fede non intaccava il rispetto
          per  la  cultura  e  la  sapienza  di  alcuni  fra  loro.  La  cultura  era  un  bene

          prezioso e come tale quasi sempre riconosciuto nella sua utilità generale:
          impensabile disprezzarlo e sciocco farne a meno.
             Conosciamo comportamenti analoghi in quei secoli: Gilberto Crispino
          che si intrattiene abitualmente con il suo «amico ebreo» su temi religiosi

          e filosofici e Pietro Abelardo che discute alla pari, per modum rationis, sul
          Sommo Bene con un «giudeo» e un filosofo musulmano nel suo Dialogo.
             Quanto al rapporto con i musulmani, il contrasto fra due atteggiamenti
          di Federico è anche più vistoso. Vediamo Federico interessato, rispettoso

          e  cortese  nel  confronto  dei  sapienti  musulmani  che  ospita  a  corte  o
          manda a cercare e interrogare al di là dei mari come quel maestro sufi, il
          dotto Ibn Sabln al-Haqq che da parte sua lo tratta invece con una certa
          arrogante  disinvoltura.  Allo  stesso  modo  Federico  apprezza  (non  può

          farne a meno, dichiara) l’abilità e la lealtà della sua cavalleria saracena
          che  lo  segue  anche  in  Terrasanta.  Ma  è  nota  la  sua  durezza  politica



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