Page 146 - Federico II - Genio dei tempi
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crimini minori, riduce le tasse del regno, restituisce alla chiesa «fatti salvi
l’onore e i diritti dell’impero» ciò di cui si era impadronito. Berardo, vicino
a Federico con fedeltà da cinquantanni, raccoglie il suo pentimento e lo
assolve.
Ma Dante lo metterà nel suo Inferno accanto ad altri eretici, come
Farinata degli Uberti e l’amico Guido Cavalcanti, eretici e epicurei
(coloro che «l’anima col corpo morta fanno»). Dante che, voce libera
ossia poetica e quindi popolare, è però anche colui che assolve da colpe
analoghe il biondo e gentile Manfredi nel Purgatorio. Ferito mortalmente
in battaglia a Benevento, Manfredi è salvo solo nel giudizio del poeta e
attende di ritornare nelle grandi braccia «della bontà infinita» in virtù di
un pentimento non manifestato pubblicamente ma vissuto nell’intenzione
del cuore, mentre suo padre Federico, pubblicamente assolto sul letto di
morte e per il quale pure Dante ha avuto parole di stima, è condannato
alle pene infernali. Una svalutazione in Dante del rito e dell’esteriorità
a favore dell’intenzione intima e consapevole? Oppure il poeta conosce
un’altra versione sulla fine dell’imperatore? La cronaca del Villani ci parla
di un assassinio commesso proprio da Manfredi che soffoca il padre
con un cuscino e testimonia dunque un Federico che non arriva alla
consapevolezza della fine.
Come ogni sovrano anche Federico tre anni prima, dopo aver sventato
una grave congiura, aveva pensato a quello che lasciava sulla terra, i figli,
le cose. Ai discendenti «deputava un gran numero di gente e d’arme» e
mezzi per mantenerli, ma il potere pieno imperiale e regale era tutto per
Corrado figlio di Isabella di Gerusalemme, il maggiore dei figli legittimi;
Enrico, figlio della principessa inglese (che era stato chiamato Enrico Carlo
Ottone fino alla morte del primogenito Enrico figlio di Costanza), avrebbe
avuto il trono di Gerusalemme, che doveva però riconquistare, e solo
in caso di premorte di Corrado l’eredità di questi. Terzo nel testamento,
ma non nel cuore di Federico, veniva l’illegittimo Manfredi, principe di
Taranto, al quale era affidato in assenza di Corrado il vicariato del regno
amato, la Sicilia.
Nella donazione dell’imperatore erano ricordati anche il nipote Federico,
figlio del suicida Enrico, l’illegittimo Federico d’Antiochia e suo figlio
Corrado d’Antiochia. Era quello di Federico un testamento minuzioso
che mostrava di tener conto ancora una volta della sua discendenza, non
sappiamo se con amore ma senz’altro con la consapevolezza dei doveri
della sua maestà. Era anche un disegno di ragione politica che si illudeva
di dominare il futuro presupponendo la pace, quella che non ci fu mai.
È proprio vero, come racconta Matteo da Parigi, che Federico chiede in
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