Page 141 - Federico II - Genio dei tempi
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idee sul potere imperiale nel sempre drammatico confronto con l’altro
potere, anche quando è latente o debole nei fatti, quello del pontefice.
Tutto ciò è ben evidente per esempio nell’enciclica di Piero scritta nel
1239, dopo la scomunica di Gregorio IX, e indirizzata ai sovrani e ai principi
d’Europa, dove Federico è assimilato alla figura del Cristo circondato da
una turba di farisei, i cortigiani di papa Gregorio IX indicato come indegno
vicario. L’anno 1239 era un momento cruciale, ma anche sette anni prima,
nella lettera allora scritta direttamente al pontefice, si può ammirare la
robustezza teorica del testo al di là dell’eleganza del dire:
Sebbene i due poteri, il sacerdotale e il sacro imperiale appaiano
distinti nel loro significato essi posseggono in realtà il medesimo senso
proveniendo dalla stessa origine. Entrambi sono infatti poteri stabiliti dalla
autorità divina, sono sostenuti dalla stessa grazia divina e potrebbero
essere rovinati dalla perdita della nostra fede comune. A noi dunque
spetta in concordia di garantire la salute della nostra fede restaurando i
diritti della chiesa insieme a quelli dell’impero.
Un equilibrio desiderato, anche progettato, ma le parole celano appena
il pericolo della frattura rovinosa che arriverà.
Sulla porta di Capua costruita nel 1234, che reca - l’abbiamo visto - nelle
sue fondamenta ottagonali il segno della dottrina e dello stile imperiali, sta
la scultura di Federico con i giudici Taddeo da Sessa, ucciso dai cittadini
di Parma nel 1247, e Pier delle Vigne. Cent’anni dopo l’edificazione della
porta, le tre immagini furono interpretate in chiave religiosa come quella
del Cristo affiancato dalla Misericordia e dalla Giustizia, vigilanti il varco
che permette il passaggio al regno celeste. Ma nel 1234 si trattava di
uomini reali e in particolare di un uomo, Piero, che conosceva il mondo
terreno molto bene - la politica, i libri, la Legge, che contribuiva a chiarire
e a esporre - e più in basso anche quelle norme non scritte ma potenti,
che regolavano il mondo della corte, l’«ospizio» dove correva avida e
rapace quella meretrice, l’invidia, «morte comune» dei palazzi del potere.
Quella che porterà Piero incolpevole, secondo Dante ma non solo, alla
rovina.
Più di un documento della corte indica in Pier delle Vigne la massima
autorità dopo l’imperatore, lo definisce vicario imperiale in analogia al
pontefice vicario divino. «Così parlò Federico: ‘Pietro amami e pascola il
mio gregge’. L’imperatore amante della giustizia intendendo dare a questa
fondamenta solidissime la pose su quella roccia affidando a Pietro il
complesso delle leggi che guidavano il popolo».
Il notaio della corte imperiale Nicola da Rocca riprende più ampiamente
il paragone di Pier delle Vigne con l’apostolo Pietro vicario del Cristo e
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