Page 115 - Federico II - Genio dei tempi
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in Oriente a prendersi Gerusalemme dove è stato incoronato, è il sovrano
          pieno e potente del suo regno solare e lontano, e in più abilissimo ed

          efficace nel rappresentare al mondo la sua eccezionalità. Del suo arrivo i
          cronisti tedeschi scrivono un resoconto strepitoso: Federico avanza con
          un seguito scintillante di carri dorati e di dignitari vestiti di porpora e
          porta con sé leopardi, cammelli, scimmie tenute al guinzaglio da servitori

          dalla pelle nera. Ancora una volta, e con più sfarzo di quarantanni prima
          quando suo padre Enrico VI ritornava in Germania dal regno degli Altavilla,
          l’imperatore rappresenta con evidenza ai suoi sudditi oltralpe lo splendore
          delle  terre  del  Sud  immaginato  a  lungo,  raccontato  dai  pellegrini  che

          erano stati nel regno di Sicilia e in Oriente e dai soldati che erano tornati
          dalla solare Palermo...
             Il figlio si getta a terra davanti al cavallo bianco dell’imperatore che
          entra  nel  castello  di  Wimpfen,  ma  Federico  senza  parlargli  e  senza

          guardarlo lo fa allontanare. Enrico lo segue, ma è già serrato nel ruolo
          di prigioniero, fino a Worms: lì è gettato in prigione dove canta, da vero
          figlio di Federico, e piange. Il giudizio si tiene dopo pochi giorni: solo
          su Enrico si abbatte la vendetta dell’imperatore che, mostrandosi invece

          generoso con i partigiani del ribelle, non inasprisce i dissidi interni alle
          differenti forze tedesche. Inviato in Puglia, Enrico resta in carcere sei anni,
          poi durante un trasferimento da una prigione all’altra, temendo il peggio o
          forse semplicemente stanco di vivere e senza più speranze, si butta con

          il suo cavallo da una rupe uccidendosi.
             Federico vuole che da morto con splendida evidenza Enrico ridiventi
          suo figlio e davanti al popolo il re di Roma: vestito di abiti d’oro e d’argento
          ricamati  con  aquile  imperiali,  Enrico  è  sepolto  con  austera  ma  alta

          solennità nel duomo di Cosenza. Il funerale viene celebrato in presenza
          dell’imperatore.
             Nella  lettera  ai  nobili  siciliani  Federico  annuncia  senza  entrare  nei
          particolari  l’avvenuta  morte  del  figlio  e  scrive  sobriamente  che  «la

          morte del primogenito infligge un dolore nel cuore del padre superiore
          all’austera condanna inflittagli» aggiungendo che «le lacrime che nascono
          dal profondo del suo animo» sono temperate solo dal ricordo dei torti
          inflitti  all’impero  da  Enrico  e  quindi  dalla  necessità  della  giustizia  che

          l’imperatore ha dovuto esercitare anche verso il suo amato figlio. Ancora
          ritorna nelle sue parole il richiamo politico a due grandi tradizioni del
          passato, la biblica e la romana.
             Non siamo né i primi né gli ultimi che sono stati offesi dai loro figli ribelli

          eppure abbiamo pianto sul loro sepolcro. Tre giorni pianse Davide il suo
          primogenito Assalonne e anche Cesare, il primo Cesare, non trattenne



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