Page 108 - Federico II - Genio dei tempi
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particolare a un principio che a noi moderni sembra così scontato, ma
          tale allora non era: l’eguaglianza dei diversi sudditi davanti alla legge.

             Desideriamo porre termine a una ambiguità o meglio a negazione della
          legge [iniurià] propria dei Franchi nelle cause civili e penali. Vogliamo
          che i nostri sudditi sappiano che noi pesiamo sulla bilancia il diritto di
          ciascuno  alla  giustizia  e  che  stabiliamo  che  nessuna  distinzione  deve

          essere fatta tra le persone nei tribunali... siano esse franche o longobarde
          o romane.
             Anche i saraceni e gli ebrei sono pari di fronte alla legge: «non vogliamo
          che essi se innocenti vengano perseguitati perché appunto sono ebrei o

          saraceni», dichiara Federico, che rileva come «le vessazioni dei cristiani
          contro di loro siano state finora enormi». La compattezza giuridica del
          regno ha la predominanza sulle differenze (per esempio le nationes o la
          religione dei sudditi).

             Sulla  stessa  linea,  l’altra  novità  presente  nelle  Melfitane:  l’iniziativa
          dell’offeso divenuto querelante non è più indispensabile nel promuovere
          il procedimento contro il colpevole nei delitti capitali. Questo punto, dopo
          secoli  di  giurisprudenza  in  cui  l’accusa  era  il  primo  passo  necessario

          a metter in moto il corso della giustizia riparatrice, è davvero notevole.
          Ecco un elemento sufficiente - scrive un glossatore - per affermare che
          «questa legge contiene un nuovo diritto» e non è detto che ciò che appare
          ai nostri occhi un positivo segno di un’autonomia del diritto dello stato

          o regnum non sembrasse all’opposto ai contemporanei di Federico un
          atto di tirannide. Tiranno in questa prospettiva tradizionale doveva infatti
          apparire il principe che agiva di sua iniziativa, o meglio in forza della legge
          del regnum, senza attendere la querela dell’offeso. Anche qui le cose sono

          più complicate di quel che potrebbero apparire a prima vista. Va ricordato
          che il precedente teorico stava nella giurisdizione ecclesiastica: era stato
          infatti Innocenzo III ad introdurre nella disciplina giuridica l’inquisizione
          rivolta a punire ogni offesa alla religione, come era esemplarmente l’eresia

          perseguita anche in assenza di querelanti.
             «Gli eretici vogliono lacerare le vesti divine»: essere contro l’identità
          cristiana  nelle  forme  riconosciute  dalla  istituzione  è  essere  non  solo
          contro  Dio  ma  contro  l’umanità.  A  giudizio  dei  sovrani  (non  solo  di

          Federico II) l’eretico, cataro, patarino o altro, è dunque un ribelle sociale e
          va perseguito se persiste nell’errore fino alla pena capitale. Agli occhi di
          Federico, che pure ammette e riconosce la molteplicità delle fedi nel suo
          regno siciliano abitato anche da ebrei e musulmani, il cristiano che non si

          sottomette al credo romano e dissente è un traditore dell’ordine divino che
          il sovrano impersona nel suo regno: implicitamente l’eretico è qualcuno



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