Page 98 - Nietzsche - Genealogia della morale
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al sonnambulismo (otto grandi esplosioni epidemiche solo tra il 1564 e il 1605) –; troviamo
tra le sue conseguenze quei collettivi delitti suicidi, il cui grido terribile «evviva la morte!» fu
udito in tutta l’Europa, interrotto da idiosincrasie ora lussuriose ora furiosamente distruttive:
del resto la stessa alleanza di affetti, con le stesse intermittenze e gli stessi sbalzi, si nota
anche oggi dovunque, in ogni caso là dove l’ascetica dottrina dei peccati arriva ancora una
volta a un grande successo. (La nevrosi religiosa appare come forma del «mal caduco»: non
c’è altro dubbio. Che cosa è? Quaeritur). Di massima, l’ideale ascetico e il suo culto sublime
morale, questa genialissima, spregiudicatissima e pericolosissima sistematizzazione di ogni
mezzo di perversione del sentimento, sotto la protezione di propositi santi, si è iscritta in
modo temibile e indimenticabile in tutta la storia dell’uomo, e purtroppo non solo nella sua
storia... Non saprei cosa altro indicare che abbia aggredito la salute e la robustezza di razza in
particolare degli Europei, con tanta distruttività come ha fatto questo ideale; senza la minima
esagerazione esso può essere la vera fatalità nella storia sanitaria dell’uomo europeo. Al suo
influsso, potrebbe, al massimo, essere rapportato ancora quello specificamente germanico:
penso all’avvelenamento da alcool dell’Europa, che sino ad oggi si è mantenuto rigorosamente
al passo con la preponderanza politica e razziale dei Germani (dove essi inocularono il loro
sangue, inocularono anche il loro vizio). – Come terza, in ordine di precedenza, sarebbe da
indicare la sifilide – magno sed proxima intervallo.
22.
Il sacerdote ascetico ha corrotto la salute dell’anima, dovunque sia arrivato al potere, ha, di
conseguenza, corrotto anche il gusto in artibus et letteris – e ancora lo corrompe – «Di
conseguenza?» – Spero che non ci siano difficoltà a consentirmi questo «di conseguenza»; per
lo meno non lo dimostrerò qui. Un unico accenno: si riferisce al libro fondamentale della
letteratura cristiana, al suo vero modello, al suo «libro in sé». Ancora nel pieno della
magnificenza greco-romana, che fu anche una magnificenza di libri, in presenza di un antico
mondo di scrittori non ancora mortificato e sgretolato, in un tempo in cui si potevano ancora
leggere alcuni libri per il cui possesso oggi si darebbero in cambio mezze letterature, la
scempiaggine e la vanità di agitatori cristiani – li chiamano Padri della Chiesa – osava già
decretare: «Anche noi abbiamo la nostra letteratura classica, non abbiano bisogno di quella
dei Greci» – rimandando orgogliosamente a libri di leggende, lettere di Apostoli, e trattatelli
apologetici, pressapoco allo stesso modo con cui oggi l’«esercito della salvezza» inglese si
batte, con una letteratura simile, contro Shakespeare e altri «pagani». Io non amo il nuovo
Testamento, com’è facile capire; quasi mi turba il fatto di essere così solo col mio gusto di
fronte a questa opera letteraria apprezzatissima e sopravvalutatissima (il gusto di due millenni
è contro di me): ma che importa! «Eccomi, non posso fare altrimenti», – ho il coraggio del mio
cattivo giusto. Il Vecchio Testamento – sì, è tutta un’altra cosa: al Vecchio Testamento va tutto
il mio rispetto! In esso trovo grandi uomini, un paesaggio eroico e, cosa rarissima sulla terra,
l’impareggiabile ingenuità di un cuore forte; e ancora di più, trovo un popolo. Nel Nuovo,
invece, nient’altro che piccole manovre di sette, nient’altro che rococò dell’anima, nient’altro
che svolazzi, tortuosità, stranezze, atmosfera di conventicola, senza dimenticare un palpito –
talora – di dolcezza bucolica, tipica dell’epoca (e anche della provincia romana) e che non è
tanto ebraica quanto ellenistica. Umiltà e prosopopea congiunte; una logorrea del sentimento