Page 97 - Nietzsche - Genealogia della morale
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reinterpretata come sentimento di colpa, di terrore e di punizione; sempre la frusta, il cilicio,
il corpo consunto dal digiuno, la contrizione; sempre il peccatore che mette se stesso alla
ruota, meccanismo crudele di una coscienza inquieta, morbosamente lasciva; sempre la tortura
muta, l’estremo terrore, l’agonia del cuore martorizzato i fremiti di una felicità ignota,
l’appello alla «redenzione». In realtà, con questo modo di procedere, l’antica depressione, la
pesantezza e stanchezza sono state radicalmente superate, la vita è diventata di nuovo molto
interessante: vigile, eternamente vigile, insonne, ardente, carbonizzato, disfatto, eppure non
stanco – così appariva l’uomo, «il peccatore», che era stato iniziato a questi misteri. Questo
vecchio e gran mago della lotta contro lo scontento, il sacerdote ascetico – aveva chiaramente
vinto, il suo regno era arrivato: già non ci si lamentava più contro il dolore, si spasimava per
sete di dolore; «più dolore, più dolore!» questo fu il grido, per secoli e secoli, del desiderio
dei suoi discepoli e iniziati. ogni perversione del sentimento che fosse dolorosa, tutto quanto
faceva a pezzi, abbatteva, sgretolava, mandava in rapimento e in estasi, il segreto dei luoghi di
tortura, l’ingegnosità dello stesso inferno – tutto era stato ormai scoperto, indovinato, sfruttato,
tutto era al servizio del mago, tutto, da quel momento, serviva alla vittoria del suo ideale,
dell’ideale ascetico... «Il regno non è di questo mondo» – continuava a dire come per
l’innanzi: – ma aveva ancora realmente il diritto di parlare così?... Goethe ha detto che
esistono solo trentasei situazioni tragiche: dal che si indovina, se non lo si sapesse già, che
Goethe non fu un sacerdote asceta. Costui – ne conosce di più...
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Riguardo a tutta questa specie di terapia sacerdotale, la specie «colpevole», ogni critica è
superflua. Che una tale perversione del sentimento, come in questo caso, è solito prescriverla
il sacerdote asceta ai suoi malati (con i nomi più sacri, è chiaro, e al tempo stesso pervaso
dalla sacralità dei suo fine), abbia mai giovato realmente a un qualche malato, chi mai
avrebbe voglia di sostenere una simile affermazione? Ci si dovrebbe per lo meno intendere
sulla parola «giovare». Se con essa si vuole affermare che un sistema simile di trattamento ha
migliorato l’uomo, non ho niente in contrario; solo aggiungo che per me «migliorato» ha lo
stesso senso che «addomesticato», «indebolito», «scoraggiato», «raffinato», «rammollito»,
«castrato» (cioè quasi lo stesso che «danneggiato»...). Ma quando si tratti principalmente di
malati, di scontenti, di depressi, un sistema siffatto rende, in ogni caso, il malato più malato,
anche ammesso che lo renda «migliore»; basta chiedere agli psichiatri quali sono le
conseguenze di una applicazione metodica di torture espiatorie, di contrizioni e di convulsioni
salvifiche. Basta interrogare anche la storia: ogni volta che il sacerdote ascetico ha applicato
questo trattamento ai malati, la condizione morbosa ha sempre guadagnato, con incredibile
velocità, in ampiezza e profondità. E il «risultato» quale è stato? Un sistema nervoso
sgretolato, in aggiunta a quello che era già malato; e questo nel più grande come nel più
piccolo, nei singoli come nelle masse. Al seguito del training di penitenza e di salvazione
ecco enormi epidemie epilettiche, le più grandi che la storia conosca, come quelle dei
ballerini di san Vito e di san Giovanni nel Medioevo; come forma diversa dei suoi postumi
troviamo le terribili paralisi e le depressioni croniche, con le quali, in certi casi, il
temperamento di un popolo o di una città (Ginevra, Basilea) si rovescia, una volta per tutte,
nel suo contrario; – e qui è da considerare anche l’isterismo delle streghe, qualcosa di simile