Page 92 - Nietzsche - Genealogia della morale
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«Bene e male» dice il buddhista – «sono entrambi catene: entrambi furono dominati dal
Perfetto»; «Fatto e non fatto» – dice il fedele del Vedânta, «non gli procurano alcun dolore; al
pari del saggio scuote da sé il bene e il male; nessuna azione affligge più il suo regno; oltre il
bene e il male, oltre queste due cose egli è andato»: – una concezione, questa, propria a tutto il
mondo indiano, tanto brahmanica quanto buddhista. – (Né nel modo di pensare indiano, né in
quello cristiano quella «liberazione» sembra essere raggiungibile con la virtù, con un
miglioramento morale, per quanto in alto essi pongano il valore ipnotico della virtù: e ciò sia
dato per certo – d’altra parte corrisponde semplicemente alla realtà delle cose. Essere rimasti
veritieri su questo punto, può forse essere considerato come il miglior frammento di realismo
nelle tre religioni più grandi, del resto tanto profondamente moralizzate. «Per colui che sa non
esiste dovere»... «L’aggiunta di virtù non produce redenzione: poiché questa consiste
nell’essere uno con il Brahman, incapace di alcun aumento di perfezione; né tanto meno lo
spogliarsi dei peccati, poiché il Brahman, essere uno col quale è ciò che costituisce la
redenzione, è eternamente puro» – questi passi dal commento di çankara, sono citati dal primo
vero conoscitore della filosofia indiana in Europa, il mio amico Paul Deussen). Rendiamo
quindi onore alla «redenzione» nelle grandi religioni; ci riesce invece un po’ difficile
mantenerci seri di fronte alla valutazione del profondo sonno compiuta da questi stanchi della
vita, troppo stanchi ormai anche per sognare – quel sonno profondo visto come dissoluzione
nel Brahman, come raggiunta unio mystica con Dio. «Quando si sia addormentato del tutto»,
– afferma in proposito la più antica e venerabile «scrittura» – «e abbia raggiunto la quiete
assoluta, così da non vedere più alcuna immagine di sogno, allora, o caro, egli è unito con
l’ente, fatto interno a se stesso – avviluppato dal sé conoscitivo, non ha più coscienza alcuna
di ciò che è interno o esterno. Questo ponte non lo superano né giorno, né notte, né vecchiaia,
né dolore, né opera buona, né opera cattiva». «Nel sonno profondo» – dicono poi i fedeli di
questa religione, la più profonda delle tre grandi religioni – «l’anima si solleva e esce da
questo corpo, penetra nella luce suprema e ciò facendo appare nella sua propria figura: essa è
così lo stesso spirito supremo, che si aggira scherzando, giocando e dilettandosi, con donne,
con carozze o con amici e non torna più indietro il suo pensiero a questa appendice corporea
cui è attaccato il prâna (soffio vitale) come l’animale da tiro al carro». Ciononostante anche
qui, come nel caso della «redenzione», terremo presente il fatto che in fondo, sia pur sempre
con lo splendore della esagerazione orientale, anche qui viene espressa solo una valutazione
simile a quella del chiaro, freddo, freddamente greco, ma sofferente Epicuro: l’ipnotico senso
del nulla, la quiete del più profondo dei sonni, in breve l’assenza del dolore – questo può
rappresentare per chi soffre e per chi è radicalmente insoddisfatto già il bene supremo, il
valore dei valori, questo deve essere valutato da costoro positivamente, deve essere sentito
come il positivo in sé. (Secondo la stessa logica del sentimento, il nulla, in tutte le religioni
pessimistiche, è chiamato Dio).
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Molto più frequentemente di un tale, totale ottundimento ipnotico della sensibilità, della
capacità di soffrire, che già presuppone forze più rare, prima di tutto coraggio, disprezzo
dell’opinione, «stoicismo intellettuale», si tenta un altro training contro gli stati depressivi
che, in ogni modo, è più leggero: l’attività macchinale. È indubbio che, grazie a questa,