Page 93 - Nietzsche - Genealogia della morale
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un’esistenza sofferente si senta sollevata in modo considerevole; questo dato di fatto viene
designato oggi, con una certa disonestà, «la benedizione del lavoro. Il sollievo consiste in ciò:
che l’interesse di chi soffre viene radicalmente distolto dalla sofferenza –, che un fare e
sempre ancora solo un fare penetra ininterrottamente nella coscienza, ragion per cui in essa
resta poco spazio per il dolore: poiché è stretta, questa camera della coscienza umana!
L’attività macchinale con i suoi annessi e connessi – come la regolarità assoluta, l’obbedienza
puntuale e irriflessa, l’una volta per tutte del modo di vita, il riempimento del tempo, una certa
permissione, anzi un certo obbligo all’«impersonalità», all’oblio di sé, alla «incuria sui» –
con che radicalismo e con quanta raffinatezza il sacerdote asceta ha saputo utilizzare tutto ciò
nella lotta contro il dolore! Proprio nei casi in cui aveva a che fare con sofferenti dei ceti
inferiori, con schiavi del lavoro o prigionieri (o con le donne, che infatti, per lo più, sono tutte
e due le cose insieme, schiave del lavoro e prigioniere), gli era sufficiente poco più che un po’
di abilità nel mutare i nomi e nel ribattezzare per far vedere loro, nelle cose odiate, un
beneficio, una relativa felicità – l’insoddisfazione dello schiavo per il suo destino non è stata,
comunque, inventata dai preti. – Un mezzo ancora più apprezzato nella lotta contro la
depressione è la prescrizione di una piccola gioia, che è facile da raggiungere e può essere
trasformata in regola; ci si serve di questa terapia spesso insieme a quella di cui si è appena
parlato. La forma più frequente, sotto cui la gioia viene prescritta come medicinale è la gioia
del procurare gioia (come fare del bene, donare, alleviare, aiutare, persuadere, consolare,
lodare, elogiare); prescrivendo «amore per il prossimo», il sacerdote ascetico prescrive in
fondo un’eccitazione dell’istinto più forte e più vitalistico, anche se attentissimamente dosato
– la volontà di potenza. La felicità della «superiorità minima», che discende dal fare del
bene, dall’essere utili, dall’aiutare, dall’elogiare, è la più ricca terapia di conforto di cui si
servono di solito coloro che sono fisiologicamente inibiti, ammesso che siano ben consigliati:
nel caso contrario, obbedendo naturalmente allo stesso istinto di base, si fanno reciprocamente
del male. Se si indaga sulle origini del cristianesimo nel mondo romano, si trovano
associazioni di mutuo soccorso, associazioni per la cura dei poveri e malati, consorterie
funerarie, cresciute negli strati più bassi della società del tempo, in cui si applicava con
coscienza questa terapia principe contro la depressione, e cioè la piccola gioia, quella del
reciproco beneficarsi – forse allora ciò era qualcosa di nuovo, una vera e propria scoperta?
Con una tale evocazione di «volontà di reciprocità», di educazione gregaria, di «comunità», di
«cenacolo», questa volontà di potenza, così stimolata, sia pur minimamente, deve arrivare a
modi di espressione nuovi e più completi: l’educazione gregaria, nella lotta contro la
depressione, costituisce un passo e una vittoria sostanziali. Nel crescere della comunità si
rafforza, anche per il singolo, un interesse nuovo, che abbastanza spesso lo solleva al di là del
momento personalissimo del proprio malumore, della propria ripugnanza di sé (la «despectio
sui» di Geulinx). Nel desiderio di liberarsi dalla confusa insoddisfazione e dal senso di
debolezza, tutti coloro che sono malati o inclini alla malattia tendono istintivamente a una
organizzazione gregaria; il sacerdote asceta afferra questo istinto e lo stimola; dove esistono
greggi, è stato l’istinto di debolezza a volere il gregge, e l’astuzia pretesca ad organizzarlo.
Non si ignori, infatti, che i forti tendono a disgregarsi con la stessa naturale necessità con la
quale i deboli tendono ad aggregarsi; se i primi si uniscono, questo accade solo in vista di
una comune azione offensiva e di un soddisfacimento comune della loro volontà di potenza,