Page 86 - Nietzsche - Genealogia della morale
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addosso una profonda tristezza, a quello sguardo volto all’indietro di chi è storpio da sempre,
sguardo che tradisce come un uomo simile parli con se stesso – a quello sguardo che è un
sospiro! «Potessi essere un altro qualsiasi!» così sospira questo sguardo: «Ma non c’è
speranza. Io sono quello che sono: come potrei liberarmi di me stesso? Eppure – ne ho a
sazietà di me!». Su questo terreno di autodisprezzo, vera e propria palude, cresce ogni
erbaccia, ogni pianta velenosa, e tutto è così piccolo, così nascosto, così falso e così
dolciastro. Qui brulicano i vermi dei sentimenti di vendetta e di rancore; qui l’aria maleodora
di cose nascoste e inconfondibili; qui si tesse senza interruzione la rete della congiura più
perfida – la congiura di chi offre contro chi è ben formato e vittorioso, qui l’aspetto del
vittorioso viene odiato. E quante menzogne per non ammettere che questo odio è odio! Che
profluvio di grandi parole e di grandi gesti, che arte dell’«onesta» calunnia! Questi falliti:
quale nobile eloquenza fluisce dalle loro labbra! Quale zuccherosa, gelatinosa, umile
devozione galleggia nei loro occhi! Ma in realtà che cosa vogliono? Per lo meno rappresenta
la giustizia, l’amore, la saggezza, la superiorità, tale è l’ambizione di questi «infimi», di questi
malati! E come rende abili questa ambizione! Si ammiri particolarmente l’abilità da falsari
con cui imitano i tratti della virtù, anche il tintinnio, il tintinnio d’oro della virtù. Hanno preso
in affitto, completamente per sé, la virtù, questi deboli, incurabili e malati, su ciò non è
possibile alcun dubbio: «Noi soli siamo i buoni, i giusti – così dicono – noi soli siamo gli
homines bonae voluntatis». Si aggirano tra noi come rimproveri in carne e ossa, come
ammonimenti rivolti a noi, come se salute, belle fattezze, forza orgoglio e senso di potenza
fossero già in sé cose peccaminose, che dovranno essere un giorno espiate, amaramente
espiate: oh come sono pronti, in fondo, a far espiare, come sono assetati dal desiderio di farsi
carnefici. Tra loro sono numerosissimi gli individui avidi di vendetta travestiti da giudici, che
hanno sempre in bocca la parola «giustizia» come saliva velenosa, sempre con una smorfia
sulla bocca, sempre pronti a sputare su tutto quello che non ha uno sguardo insoddisfatto e va
per la sua strada di buon animo. Tra loro non manca nemmeno quella razza assolutamente
ripugnante di vanitosi, aborti mendaci, che non tendono ad altro che a passare per «anime
belle» e a mettere in piazza, avvolta in versi e altri pannolini, la loro stroppia sensualità come
«purezza di cuore»: la razza degli onanisti morali e di coloro che si «autosoddisfano». La
volontà dei malati di rappresentare una forma qualsiasi di superiorità, il loro istinto per le
scappatoie che conducono a una tirannia sui sani – a che cosa non arriva questa volontà di
potenza, tipica proprio dei più deboli! E in particolare la donna malata: nessuno la supera
nella raffinatezza del dominare, dell’opprimere, del tiranneggiare. La donna malata, infatti,
non risparmia niente di vivo, niente di morto, riesuma le cose più profondamente sepolte (i
Bogo dicono: «la donna è una iena»). Basta guardare la vita segreta di ogni famiglia, di ogni
corporazione, di ogni comunità: dovunque la lotta dei malati contro i sani – lotta muta, per lo
più fatta di piccole polveri tossiche, di punture d’aghi, di atteggiamenti d’ipocrita e astuta
sopportazione, e a tratti anche di quel farisaico modo di fare del malato che recita più
volentieri di ogni altra cosa la «nobile indignazione», con un gestire rumoroso. Sino alle sacre
stanze della scienza vorrebbe farsi udire il latrato rauco della indignazione dei cani malati, la
mendacia velenosa e la rabbia di tali «nobili» farisei (ricordo ancora ai lettori che hanno
orecchie, quell’apostolo berlinese della vendetta, Eugen Dühring, che nella Germania odierna
utilizza nel modo più indecente e disgustoso il tam-tam della morale: Dühring, il primo