Page 79 - Nietzsche - Genealogia della morale
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lui, lo indirizza a condizioni nelle quali viene sollevato dal dover pensare a sé; nello stesso
senso in cui l’istinto della madre, nella donna, ha consolidato fino ad oggi lo stato di
dipendenza della donna in genere. In fondo non chiedono poi troppo questi filosofi, il loro
motto è: «Chi possiede, è posseduto» –: e non, come non mi stancherò di ripetere, per virtù,
per una meritevole volontà di temperanza e di semplicità, ma perché il loro supremo signore
questo pretende da loro, e lo pretende saggiamente e senza pietà; come colui cui solo una cosa
sta a cuore, e per essa soltanto raccoglie e risparmia tutto, tempo, forza, amore, interesse.
Questo tipo di uomo non ama essere turbato da inimicizie, e nemmeno da amicizie; dimentica e
disprezza con facilità. Crede che sia di pessimo gusto fare i martiri; «soffrire per la verità» –
è cosa da lasciare agli ambiziosi e agli eroi da palcoscenico dello spirito e a quanti altri
hanno tempo da perdere (– essi invece, i filosofi, hanno qualcosa da fare per la verità). Fanno
uso moderato di grandi parole; si dice, che la sola parola «verità» li disgusti: avrebbe un
suono magniloquente... Per quello poi che riguarda la «castità» dei filosofi, è chiaro che
questo tipo di spiritualità ha la sua fecondità in qualcosa di diverso dai figli; e forse anche
altrove è la sopravvivenza del loro nome, la loro piccola immortalità (ancora con minor
modestia ci si esprimeva nella antica India tra i filosofi: «A che scopo dei discendenti per
colui la cui anima è il mondo?»). – Qui la castità non è dovuta a un qualche scrupolo ascetico
o all’odio per i sensi, così come non è castità quella dell’atleta o del fantino che si tiene
lontano dalle donne: piuttosto è il loro istinto dominante a voler così, per lo meno nei tempi
della piena gravidanza. ogni artista sa quanto siano dannosi i rapporti sessuali negli stati di
grande tensione e preparazione spirituale; per i più forti e per i più istintualmente sicuri di
loro, non basta nemmeno l’esperienza, l’esperienza negativa – è invece proprio il loro istinto
«materno» che dispone qui senza riguardi, a tutto vantaggio dell’opera in divenire, di tutte le
altre riserve e gli altri apporti di forza, di vigore della vita animale: la forza più grande usa
allora la più piccola. d’altra parte possiamo esaminare il già discusso caso Schopenhauer alla
luce di questa interpretazione: lo spettacolo del bello agiva chiaramente in lui come stimolo
liberatorio sulla forza principale della sua natura (la forza della riflessione e di uno sguardo
più approfondito); così che questa poi poteva esplodere e impadronirsi, in una volta sola,
della coscienza. Con questo non si deve assolutamente escludere la possibilità che quella
dolcezza e quella pienezza, tipica dello stato estetico, potesse trarre origine proprio dallo
ingrediente «sensualità» (dalla stessa sorgente discende quel caratteristico «idealismo» delle
ragazze in età da marito) – e che con ciò la sensualità non viene meno in presenza dello stato
estetico, come credeva Schopenhauer, ma si trasfigura e non entra più nella coscienza come
stimolo sessuale. (Su questa opinione tornerò un’altra volta, in relazione ai problemi, ancora
più delicati, della fisiologia dell’estetica sino a oggi mai toccata e rivelata). 9. Un certo
ascetismo, abbiamo visto, una rinunzia dura e serena, spontanea, fa parte delle condizioni
favorevoli di una spiritualità altissima e al tempo stesso delle sue più naturali conseguenze:
cosicché fin dall’inizio non ci sarà da meravigliarsi se l’ideale ascetico è sempre stato trattato
con qualche prevenzione proprio dai filosofi. A una seria controprova storica il legame tra
ideale ascetico e filosofia si dimostra persino ancora più stretto e serrato. Si potrebbe dire
che solo grazie alle dande di questo ideale la filosofia abbia imparato a muovere sulla terra i
suoi passi e passetti – ahi, ancora tanto incerta, ahi, con espressione così scontenta, ahi, così
pronta a cadere e a restare pancia a terra, questa tenera goffa cosa dalle gambe storte! Alla