Page 78 - Nietzsche - Genealogia della morale
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proprio come istinto dominante, che afferma le sue esigenze su tutti gli altri istinti – e lo fa
ancora; se non lo facesse non sarebbe dominante. In ciò quindi non c’è traccia di «virtù».
D’altra pane il deserto di cui ho appena parlato, dove gli spiriti forti si ritirano o si isolano –
di quanto è diverso questo deserto da quello che i dotti si immaginano nei loro sogni! – infatti,
in certi casi, sono essi stessi, questi dotti, il deserto. Ed è certo che tutti i commedianti dello
spirito non potrebbero assolutamente resistervi – per loro un simile deserto non è né
abbastanza romantico né abbastanza siriano, né abbastanza teatrale! In ogni modo non manca
certo di cammelli: però la rassomiglianza si limita a questo. Una oscurità volontaria forse; un
eludere se stessi; un temere fracasso, venerazione, giornali, influssi; un piccolo impiego, la
vita quotidiana, qualcosa che più che mettere in luce, nasconde; una serie di contatti
occasionali con animali innocui e pacifici, e con uccelli la cui vista riposa; una montagna per
compagnia, ma non una montagna morta bensì una dotata di occhi (cioè i laghi); in qualche
caso persino una camera in una locanda piena di gente, dove si è certi di essere scambiati per
altri, e dove si può parlare impunemente con tutti – questo è il «deserto»: oh, è abbastanza
solitario, credetemi! Quando Eraclito si ritirò negli allodi e sotto i portici del gigantesco
tempio di artemide, questo «deserto» era più dignitoso lo ammetto: perché non abbiamo
templi simili? – (forse li abbiamo: sto pensando al mio studio più bello, a Piazza S. Marco, a
primavera s’intende, e di mattina, tra le dieci e le dodici). Ciò da cui Eraclito fuggiva, è
ancora la stessa cosa da cui noi ora fuggiamo: il frastuono e le chiacchiere democratiche degli
Efesi, la loro politica, le loro novità sull’«impero» (di Persia, si capisce), la loro paccottiglia
di «oggi» – perché noi filosofi abbiamo bisogno soprattutto di calma di fronte a una cosa:
soprattutto di fronte a tutto quello che è l’«oggi». Noi veneriamo il silenzio, la freddezza, la
nobiltà, la lontananza, il passato, tutto quello, insomma alla cui vista l’anima non ha bisogno di
difendersi, di rinserrarsi – qualcosa con cui si può parlare, senza parlare ad alta voce. Basta
solo ascoltare il suono che uno spirito ha quando parla: ogni spirito ha il suo suono, ama il suo
suono. Quello là deve certo essere un agitatore, voglio dire una testa vuota, una pentola vuota:
quello che vi entra, qualsiasi cosa sia, ne esce cupa e pesante, gravata dall’eco del grande
vuoto. Quello là parla di raro con una voce che non sia rauca: che si sia arrochita a forza di
pensare? la cosa sarebbe possibile – se interroghiamo i fisiologi –, ma chi pensa in parole,
pensa come oratore e non come pensatore (e rivela che in fondo non pensa cose, non pensa
concretamente, ma solo in relazione a cose, e che pensa in realtà se stesso e i propri
ascoltatori). Il terzo invece parla in modo invadente, ci sta premendo addosso, ne sentiamo
l’alito – involontariamente ci tappiamo la bocca, anche se ci parla attraverso un libro: il suono
del suo stile ci dice la ragione per cui egli non ha tempo, per cui crede a malapena a se stesso,
per cui oggi o mai più arriva a parlare. Uno spirito però, che sia sicuro di sé, parla a bassa
voce; ama la discrezione, si fa aspettare. Un filosofo si riconosce dal suo evitare tre cose
brillanti e rumorose, la gloria, i sovrani e le donne: e con ciò non è detto che non siano esse a
venire a lui. Teme ogni luce troppo chiara: perciò teme il suo tempo, e il suo «giorno». In
questo è come un’ombra: più il sole cala più diventa grande. Per quel che concerne la sua
«umiltà», egli sopporta, come sopporta l’oscurità, anche una certa dipendenza e eclisse: e in
più teme i danni provocati dai lampi, indietreggia atterrito di fronte alla vulnerabilità di un
albero troppo isolato ed esposto, sul quale ogni maltempo sfoga i suoi malumori e ogni
malumore il suo maltempo. Il suo istinto «materno», l’amore segreto per quello che cresce in