Page 76 - Nietzsche - Genealogia della morale
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ragione per la sua persona, che cosa si sarebbe raggiunto con ciò, per una migliore conoscenza
dell’essenza del bello? Schopenhauer ha descritto un effetto del bello, quello pacificatore
della volontà – ma questo è poi un effetto normale? Stendhal, come si è detto, natura non meno
sensuale, ma più armoniosa di Schopenhauer, sottolinea un altro effetto del bello: «Il bello
promette felicità», e ritiene che il dato di fatto sia proprio l’eccitazione della volontà
(«dell’interesse») tramite il bello. E, infine, non si potrebbe obiettare allo stesso
Schopenhauer, il quale molto a torto qui si ritiene kantiano, che non ha assolutamente
compreso in modo kantiano la kantiana definizione del bello – che anche a lui il bello piace
per un «interesse», anzi per un interesse fortissimo, personalissimo come pochi: quello del
torturato che si libera dalla sua tortura?... E per tornare alla nostra prima domanda, «che senso
ha l’omaggio reso da un filosofo all’ideale ascetico?» – abbiamo qui, per lo meno, una prima
indicazione: egli vuole liberarsi da una tortura.
7.
Guardiamoci dal fare visi tetri davanti al termine «tortura»: proprio in questo caso c’è
abbastanza da porre sul conto opposto, abbastanza da sottrarre – e anche un po’ da ridere. –
Infatti non dobbiamo sottovalutare il fatto che Schopenhauer, il quale aveva trattato la
sensualità come se, in realtà, fosse stata un suo nemico personale (compreso il suo strumento,
la donna, questo instrumentum diaboli), aveva bisogno di nemici, per restare di buon umore;
che amava le parole rabbiose, biliose, nere e verdastre; che si infuriava per infuriarsi, per
passione; che si sarebbe ammalato, sarebbe diventato pessimista (– cosa che non fu, sebbene
lo desiderasse ardentemente) senza i suoi nemici, senza Hegel, la donna, la sensualità e tutta la
volontà di esistere, di restare. Altrimenti Schopenhauer non ci sarebbe restato, su questo si
può scommettere, se la sarebbe battuta: ma i suoi nemici lo trattenevano, i suoi nemici lo
seducevano sempre e di nuovo all’esistenza, la sua ira era, come negli antichi Cinici, il suo
ristoro, il suo conforto, la sua ricompensa, il suo remedium contro la nausea, la sua felicità.
Questo per quanto concerne l’aspetto più personale del caso Schopenhauer; d’altro canto in lui
c’è ancora qualcosa di tipico – e solo a questo punto ritorniamo al nostro problema. Finché ci
saranno filosofi sulla terra, ovunque siano esistiti filosofi, (dall’India all’Inghilterra, per
prendere i poli estremi del talento filosofico) esisterà, incontestabilmente, una suscettibilità
particolare e un filosofico rancore contro la sensualità – Schopenhauer ne è solo lo sfogo più
eloquente, e se si ha orecchio per capire, anche il più travolgente e fascinoso – ; allo stesso
modo esiste nei filosofi una prevenzione e una predilezione tutta particolare riguardo
all’intero ideale ascetico, nei confronti e contro di esse non c’è nulla da fare. Entrambe queste
cose sono proprie, come si è detto, del tipo; se l’una e l’altra mancano a un filosofo, egli
resterà – se ne può essere certi – solo un «cosiddetto» filosofo. Che significa questo? Questo
dato di fatto deve essere prima di tutto interpretato: esso sta lì in sé stupido per l’eternità,
come ogni «cosa in sé». Ogni animale, e quindi anche la bête philosophique, tende
istintivamente a un optimum di condizioni favorevoli, che gli permettano di sfogare
completamente la sua forza e di raggiungere il maximum nel sentimento di potenza. Altrettanto
istintivamente, e con una acutezza di fiuto «superiore a ogni ragione», tutti gli animali hanno in
onore ogni specie di turbamento e di ostacolo che gli impediscano o possano impedirgli il
cammino verso l’optimum (– non è la sua via alla felicità, quella di cui parlo, ma la sua via