Page 62 - Nietzsche - Genealogia della morale
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         Anche la coscienza di Spinoza avvertì tutto ciò in maniera imbarazzante (a dispetto dei suoi
      commentatori che si affaticano diligentemente per fraintenderlo proprio su questo punto, come
      per  esempio  Kuno  Fischer)  quando,  un  pomeriggio,  incappando  in  chi  sa  quale  ricordo,  si
      immerse  nel  problema  di  quanto  del  famoso  morsus  conscientiae  fosse  rimasto  in  lui  in
      particolare, in lui che aveva relegato il bene e il male tra le fantasie umane, difendendo con
      rabbia l’onore del suo «libero» Dio contro quei bestemmiatori che avevano osato affermare

      che Dio agisce solo sub ratione boni («la qual cosa, però, significherebbe sottoporre Dio al
      destino e sarebbe certo la più grande di tutte le incongruenze» –). Per Spinoza il mondo era di
      nuovo  regredito  a  quella  innocenza  in  cui  si  trovava  prima  dell’invenzione  della  cattiva
      coscienza: che fine aveva fatto allora il morsus coscientiae? «L’opposto del gaudium,  –  si
      disse alla fine – una tristezza accompagnata dalla rappresentazione di un evento passato che si
      è  compiuto  in  modo  contrario  ad  ogni  aspettativa».  Eth.  III  propos.  XVIII  schol.  I.II.  Non

      diversamente da Spinoza i malfattori colpiti dalla pena, nel corso di millenni, hanno inteso la
      loro «colpa»: «Inaspettatamente qualcosa non è andata qui per il verso suo», e non «Non avrei
      dovuto farlo» –; essi si assoggettavano alla pena come ci si sottomette a una malattia, a una
      sventura  o  alla  morte,  con  quell’intrepido  fatalismo  senza  rivolta,  in  virtù  del  quale  per
      esempio i Russi ancora oggi superano noi occidentali nel trattare la vita. Se ci fu allora una
      critica  dell’azione,  fu  l’intelligenza  a  esercitare  la  sua  critica  sull’azione:  senza  dubbio
      dobbiamo  cercare  il  vero  e  proprio  effetto  della  pena  prima  di  tutto  in  un  acuirsi

      dell’intelligenza, in un prolungarsi della memoria, in una volontà di agire, d’ora in avanti, con
      più attenzione, con più diffidenza, con più segretezza, considerato che per molte cose siamo
      veramente troppo deboli, in una specie di perfezionamento del nostro giudizio su noi stessi.
      Quello  che  la  pena,  nel  complesso,  può  avere  fatto  acquisire  all’uomo  e  all’animale  è
      l’incremento della paura, l’acuirsi dell’intelligenza, il controllo dei desideri: in questo modo

      la  punizione  addomestica  l’uomo,  ma  non  lo  rende  «migliore»  –  anzi,  con  più  diritto,  si
      potrebbe affermare il contrario. («Sbagliando s’impara», dice il popolo, e nel momento stesso
      in  cui  s’impara,  si  diventa  anche  cattivi.  Per  fortuna  molto  spesso  lo  sbaglio  rende  anche
      stupidi).

         16.
         A questo punto non posso più evitare di dare della mia personale ipotesi sull’origine della
      «cattiva  coscienza»  una  prima  provvisoria  definizione:  essa  non  è  facile  da  ascoltare  e

      bisogna  dormirci  sopra,  rifletterci  e  tenerla  in  attenta  osservazione.  Considero  la  cattiva
      coscienza  come  la  grave  malattia  cui  l’uomo  doveva  soccombere,  sotto  la  spinta  della  più
      profonda di tutte le mutazioni di cui egli ha mai fatto esperienza – quella mutazione che lo
      imprigionò nella magia della società e della pace. Una cosa simile deve essere capitata agli
      animali acquatici, quando furono costretti a trasformarsi in animali terrestri o a morire, e così

      anche questi semianimali felicemente adattati alla vita selvaggia, alla guerra, al nomadismo,
      all’avventura  –  all’improvviso  videro  tutti  i  loro  istinti  svalutati  e  «scardinati».  dovettero
      allora camminare sulle gambe e «sorreggersi», mentre prima erano stati portati dall’acqua:
      una pesantezza tremenda li affliggeva. Si sentivano incapaci delle operazioni più elementari,
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