Page 59 - Nietzsche - Genealogia della morale
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anche la sua base di partenza, così l’occhio come se fosse stato fatto per vedere, la mano per
prendere. Così si è immaginato anche che la pena fosse stata inventata per punire. Ma tutti gli
scopi, tutte le utilità, sono solo sintomi del fatto che una volontà di potenza ha conquistato
qualcosa di meno potente e gli ha imposto autonomamente il senso di una funzione; e tutta la
storia di una «cosa», di un organo, di un uso può essere così una continua catena di segni, di
interpretazioni e sistemazioni sempre nuove, le cui cause non hanno neanche bisogno di essere
in relazione tra loro, anzi, a seconda dei casi, si susseguono e si danno il cambio del tutto
casualmente. «Evoluzione» di una «cosa», di un uso, di un organo è, quindi, tutt’altro che il
suo progressus verso un fine, e meno che mai un progressus logico e brevissimo ottenuto col
minimo dispendio di forza e di spese – ma il susseguirsi di processi di sopraffazione che si
svolgono in quello più o meno profondamente, più o meno indipendenti l’uno dall’altro, con in
più le resistenze che continuamente gli si oppongono, i tentativi di modificazioni di forma a
scopo di difesa e di reazione, compresi i risultati di controazioni riuscite. La forma è fluida,
ma il «senso» lo è ancora di più… Anche all’interno di ogni singolo organismo si verifica la
stessa cosa: a ogni sostanziale crescita del tutto, slitta anche il «senso» dei singoli organi – in
certi casi il loro parziale decadere, la loro diminuzione numerica (per esempio con la
distruzione degli elementi intermedi) può essere un segno di forza crescente e di perfezione.
Volevo dire: anche il parziale farsi inutile, l’atrofizzarsi e il degenerare, la perdita di senso e
di conformità al fine, in breve la morte, fanno parte delle condizioni del progressus reale: il
quale appare sempre come una volontà e una via verso una potenza più grande e si afferma
sempre a spese di innumerevoli potenze minori. La grandezza di un «progresso» si misura
addirittura sul metro di tutto ciò che ha dovuto essergli sacrificato; l’umanità come massa
sacrificata al benessere di una singola più forte specie umana – questo sarebbe un
progresso… Tanto più sottolineo questo punto di vista fondamentale della metodologia
storica, in quanto si oppone radicalmente agli istinti e al gusto del tempo, in effetti dominante,
che anziché alla teoria di una volontà di potenza che si attua in ogni accadere, preferirebbe
adattarsi alla assoluta casualità, all’assurdità meccanicistica di tutto l’accadere.
L’idiosincrasia democratica contro tutto ciò che domina o vuol dominare, il misarchismo
moderno (per designare con una brutta parola una brutta cosa) a poco a poco si è tanto
travestito e trasformato in qualcosa di intellettuale, anzi di superlativamente intellettuale, da
potersi infiltrare oggi, passo dopo passo, già nelle scienze più rigorose e apparentemente più
oggettive: anzi mi sembra che si sia già impadronito di tutta la fisiologia e teoria della vita, a
danno loro, com’è ovvio, mentre, con un gioco di prestigio ha fatto sparire da esse un concetto
fondamentale, quello della vera e propria attività. Sotto la pressione di quella idiosincrasia
passa in primo piano invece l’«adattamento», cioè una attività di second’ordine, una semplice
reattività, anzi si è definita la vita stessa come un adattamento interno sempre più finalizzato a
fatti esterni (Herbert Spencer). Con ciò si disconosce, però, l’essenza della vita, la sua
volontà di potenza; con ciò si perde di vista la priorità di principio che hanno le forze
spontanee, aggressive, sopraffattrici, le quali sono in grado di fornire nuove interpretazioni,
nuove direttive e nuove forme, al cui effetto soltanto segue «l’adattamento»; in tal modo viene
rinnegato, nell’organismo stesso, il ruolo egemonico degli elementi addetti alle funzioni più
elevate, nei quali la volontà di vita si manifesta attivamente e formativamente. Si pensi a ciò
che Huxley ha rimproverato a Spencer – il suo «nichilismo amministrativo»: ma si tratta di