Page 61 - Nietzsche - Genealogia della morale
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ancora mantenuto in vita da stirpi potenti e venga considerato come privilegio. Pena come
dichiarazione e norma di guerra contro un nemico della pace, della legge, dell’ordine,
dell’autorità, che si combatte con i mezzi che la guerra fornisce perché pericoloso per la
comunità, come trasgressore del patto su cui fondano i suoi presupposti, come sovversivo,
traditore e nemico della pace. –
14.
È chiaro che questa lista è incompleta; la pena è palesemente sovraccarica di ogni specie di
utilità. Tanto più facile sarà il sottrarle una presunta utilità, che in ogni modo, nella coscienza
popolare conta come la più importante – la fede nella pena, che oggi vacilla per ragioni
diverse, trova proprio in questa il suo più solido sostegno. La pena deve valere per
risvegliare nel colpevole il sentimento della colpa, al suo interno si cerca il tipico
instrumentum di quella reazione psichica che si chiama «cattiva coscienza», «rimorso». Ma
ciò facendo si prende ancora oggi un abbaglio per quel che riguarda la realtà e la psicologia: e
ancora di più se si pensa a tutta la lunghissima storia dell’uomo, alla sua preistoria! Proprio
nei delinquenti e nei detenuti il rimorso vero è qualcosa di molto raro, le prigioni, gli istituti
di pena non sono i luoghi di incubazione in cui questa specie di tarlo ama crescere – in ciò
sono d’accordo tutti gli osservatori coscienziosi, i quali, in molti casi, esprimono un giudizio
siffatto abbastanza a malincuore e contro i loro più profondi desideri. Per esprimersi in
termini generali, la pena rende più duri e freddi; essa concentra; acuisce il sentimento di
estraneità; aumenta la capacità di resistenza. Se capita che essa fiacchi la energia e provochi
una prostrazione miserevole e un’autoumiliazione, questo risultato è certo ancora meno
consolante dell’effetto medio della pena, che è caratterizzato da una gravità asciutta e cupa.
Ma se pensiamo a quei millenni precedenti la storia dell’uomo, potremo, facilmente dedurre
che proprio la pena ha arrestato, più decisamente che mai, l’evoluzione del senso di colpa –
per lo meno per quel che riguarda la vittima su cui si esercitava il potere punitivo. Infatti non
dobbiamo sottovalutare in che misura proprio lo spettacolo delle procedure giudiziarie ed
esecutive sia per il reo un impedimento a considerare il suo gesto, la specie della sua azione
in sé, come qualcosa di riprovevole: poiché egli vede che proprio la stessa specie di azioni è
compiuta con buona coscienza al servizio della giustizia, e è approvata: cioè spionaggio,
intrighi, corruzione, insidie, insomma tutta l’arte, fatta di astuzie e trucchi, di poliziotti e
accusatori e ancora furti, violenze, insulti, prigionia, torture, assassinii sistematici e certo non
scusabili perché commessi sotto la spinta della passione, così come si riflettono nei vari tipi
di pena – azioni tutte che i suoi giudici non respingono né condannano in sé, ma solo sotto
certi aspetti e in certe applicazioni pratiche. La «cattiva coscienza», questa pianta, la più
sinistra e interessante della nostra «vegetazione terrestre», non è nata su questo terreno – in
realtà, la coscienza di quanti giudicano e stabiliscono la pena, anche per un periodo di tempo
lunghissimo, non ha mai registrato il fatto di avere a che fare con un «colpevole». Piuttosto,
invece, con un individuo capace di procurare danni, con un irresponsabile brandello di
fatalità. E anche colui su cui dopo si abbatteva la pena, ancora una volta come un brandello di
fatalità, non soffriva di nessun’altra «intima pena» se non di quella che deriva dalla comparsa
improvvisa d’un qualcosa di imprevisto, di una spaventevole calamità naturale, di un blocco
di roccia che precipita e stritola e contro cui non è più possibile lottare.