Page 53 - Nietzsche - Genealogia della morale
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dimostrare chiaramente che allora, quando l’umanità non si vergognava ancora della propria
crudeltà, la vita sulla terra era molto più serena di oggi che esistono i pessimisti. L’oscurarsi
del cielo sugli uomini è sempre stato proporzionale all’aumento della vergogna dell’uomo di
fronte all’uomo. Lo sguardo stanco e pessimista, la sfiducia davanti all’enigma della vita, il
gelido no della nausea alla vita – non sono questi i segni delle età più malvagie del genere
umano: anzi esse, da quelle piante palustri che sono, emergono alla luce del giorno soltanto
quando c’è la palude di cui fanno parte – intendo qui il rammollimento morboso e la
demoralizzazione, per cui la bestia «uomo» impara, alla fine, a vergognarsi di tutti i suoi
istinti. Sulla strada verso l’«angelo» (per non usare qui una parola più dura) l’uomo si è
procurato quello stomaco malato e quella lingua impastata che gli hanno reso disgustosa non
solo la gioia e l’innocenza dell’animale, ma che gli fanno ritenere insipida anche la vita –
tanto che talvolta sta di fronte a se stesso tappandosi il naso e con papa Innocenzo III compila
il catalogo di tutto ciò che gli ripugna («concepimento peccaminoso, nauseante nutrizione nel
corpo materno, miseria della materia da cui l’uomo si è sviluppato, puzza atroce, secrezione
di saliva, urina e feci»). Oggi che il dolore deve sempre esibirsi al primo posto tra gli
argomenti contro l’esistenza, come suo più grave punto interrogativo, fa bene riportare alla
memoria i tempi in cui i criteri di giudizio erano diversi, perché non si voleva fare a meno di
fare del male, vedendo in ciò un incantesimo di prim’ordine, una vera e propria offa della
seduzione a vivere. Forse allora – sia detto per la consolazione delle anime delicate – il
dolore non faceva ancora tanto male come oggi; per lo meno questa sarà la conclusione di un
medico che abbia curato negri (prendendoli a rappresentanti degli uomini preistorici –) colpiti
da gravi infezioni interne, che fanno quasi disperare anche il più organicamente perfetto degli
europei – ai negri questo non capita. (la curva della resistenza umana al dolore infatti sembra
precipitare in modo eccezionale quasi improvviso, non appena si abbiano dietro di sé i primi
diecimila o dieci milioni di appartenenti a una civiltà superiore; e per quanto mi riguarda non
ho dubbi che, in confronto a una notte di dolori di una isterica dotta femminuccia le sofferenze
di tutti gli animali che sino ad oggi sono stati interrogati col coltello allo scopo di riceverne
risposte scientifiche, non sono nemmeno da prendere in considerazione). Forse è addirittura
lecito ammettere la possibilità che anche quel piacere della crudeltà non debba proprio
essersi spento: esso avrebbe solo bisogno di una certa sublimazione e di una certa
depurazione, oggi che il dolore fa più male; dovrebbe apparire espressamente trasferito in
termini di immaginazione e di anima, e ornato di un buon numero di appellativi così
inoffensivi da non risvegliare alcun sospetto nemmeno nella più delicata e ipocrita coscienza
(la «compassione tragica» è uno di questi appellativi; un altro è «les nostalgies de la croix»).
Quello che indigna di fronte al dolore, non è il dolore in sé, ma la mancanza di senso del
dolore; ma né per il cristiano, che è stato capace di costruirsi nel dolore tutto un misterioso
meccanismo di salvezza, né per l’uomo ingenuo delle epoche più antiche, che sapeva
interpretare ogni dolore in rapporto allo spettatore o a chi provocava il male, questo dolore
privo di senso non esisteva. Per far sì che il dolore nascosto, non rivelato, privo di testimoni
fosse cancellato dal mondo e onestamente negato, si fu allora quasi costretti a inventare
divinità e esseri intermedi di varia altezza e profondità, in breve, qualcosa che si muove anche
in ciò che è nascosto, che vede anche nell’oscurità e che non si fa sfuggire tanto facilmente un
interessante spettacolo doloroso. Con l’ausilio di tali invenzioni, la vita imparò a esercitare