Page 50 - Nietzsche - Genealogia della morale
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a quello di far smembrare e calpestare il colpevole dai cavalli (lo «squartamento»), a quello
di far bollire il reo nell’olio o nel vino (ancora nel XIV e nel XV secolo), al prediletto
scorticamento («scuoiamento»), allo strappare la carne dal petto; e anche al supplizio di
cospargere il malfattore di miele e di abbandonarlo poi alle mosche, sotto il sole ardente. Con
l’ausilio di queste immagini e di questi procedimenti si finisce per fissare finalmente nella
memoria cinque o sei «non voglio», in rapporto ai quali si è promesso, per vivere nei vantaggi
della società – e in realtà, con l’aiuto di questa specie di memoria si è arrivati infine «alla
ragione»! – Ah la ragione, la serietà, la padronanza degli affetti, tutta questa oscura faccenda
che è chiamata riflessione, tutti questi privilegi e accessori di lusso dell’uomo: come si sono
fatti pagare cari! quanto sangue e quanto orrore è al fondo di tutte le «cose buone»!…
4.
Ma come mai è venuta al mondo quell’altra «oscura faccenda», la coscienza della colpa,
l’intera «cattiva coscienza»? – E con ciò torniamo ai nostri genealogisti della morale. Lo dico
ancora una volta – o forse non l’ho ancora mai detto? – essi non valgono niente. Un’esperienza
singola di non più di cinque spanne, solo «moderna», nessun sapere, nessuna volontà di sapere
il passato; ancora meno un istinto storico, una «seconda vista» necessaria proprio in questo
caso – eppure si occupano di storia della morale: e ciò deve ovviamente portare a risultati che
hanno un rapporto non puramente sdegnoso con la verità. Questi nostri genealogisti della
morale hanno mai sia pur lontanamente pensato che, per esempio, quel concetto fondamentale
di «colpa» ha la sua origine nel concetto molto materiale di «debito»? O che la pena come
rivalsa si è sviluppata prescindendo assolutamente da ogni presupposto sulla libertà e non
libertà del volere? – e ciò sino al punto in cui c’è invece sempre in primo luogo bisogno di un
alto livello di umanizzazione, perché l’animale «uomo» cominci a operare quelle
diversificazioni molto più primitive come «intenzionale», «negligente», «casuale»,
«responsabile» e i loro opposti, e a tenerne conto nella corresponsione della pena. Quel
pensiero oggi così a buon mercato e apparentemente così naturale e inevitabile, cui si è
sempre dovuto far ricorso per spiegare come si è originato sulla terra il sentimento della
giustizia, il pensiero cioè che «il delinquente merita di essere punito perché avrebbe potuto
agire diversamente», è in effetti una forma assolutamente tarda, anzi raffinata del giudicare e
del dedurre umano; chi la sposta alle origini, commette un grossolano errore riguardo alla
psicologia della umanità più antica. Per tutto il più lungo periodo della storia umana, non si è
usata la pena, perché si considerasse responsabile della sua azione colui che aveva fatto il
male, cioè non secondo il presupposto che si debba punire solo il colpevole – ma invece, si
puniva, come ancora oggi i genitori puniscono i figli, e cioè sotto l’impulso della collera per
un danno subito, la quale si sfoga sull’autore del danno – collera, questa, controllata e
modificata dall’idea che ogni danno abbia, in qualche cosa, il suo equivalente e che possa
essere indennizzato, sia pure con il dolore di chi lo ha prodotto. Da dove ha derivato la sua
forza questa antichissima idea, dalle radici profondissime che forse oggi non è più possibile
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estirpare, lidea di un’equivalenza di danno e dolore? Io l’ho già svelato: nel rapporto
contrattuale tra creditore e debitore, che è tanto antico quanto lo sono anche i «soggetti di
diritto», e rimanda ancora una volta, da parte sua, alle forme fondamentali di compera,
vendita, baratto e commercio.