Page 52 - Nietzsche - Genealogia della morale
P. 52
non sarebbe lecito aggiungere che in fondo quel mondo non si è mai più liberato di un certo
qual odore di sangue e di tortura? (anche nel vecchio Kant: l'imperativo categorico sa di
crudeltà…). E parimenti qui è stata ribadita per la prima volta quella più crudele
concatenazione di idee, «colpa e dolore», che forse si è fatta indissolubile. E chiediamoci
ancora: in che misura il dolore può essere una compensazione dei «debiti»? Nella misura in
cui far soffrire procurava grandissimo piacere, nella misura in cui il danneggiato scambiava il
danno, con in più l’irritazione per il danno, con un contro-piacere straordinario: il far soffrire
– vera e propria festa, cosa che, come si è detto, tanto più era apprezzata, quanto più
contraddiceva il rango e la posizione sociale del creditore. Queste sono certo solo
supposizioni: poiché è molto difficile arrivare al fondo di simili cose sotterranee, a
prescindere dal fatto che è anche increscioso; e chi tira rozzamente in ballo qui il concetto di
«vendetta», non fa altro che velarsi e coprirsi gli occhi invece di renderli più acuti (– anche la
vendetta rimanda proprio allo stesso problema: «come è possibile che il far-soffrire
rappresenti una soddisfazione»). Contrasta, mi pare, con la delicatezza, ancora di più con la
tartuferia di pacifici animali domestici (alludo agli uomini moderni, alludo a noi), immaginare
con la maggiore intensità possibile sino a che grado la crudeltà costituisca la più grande gioia
festiva dell’umanità più antica, e anzi sia mescolata a guisa d’ingrediente, a quasi tutte le sue
gioie; d’altra parte, quanto ingenuamente e con quanta innocenza si manifesta il suo bisogno di
crudeltà, e come proprio la «cattiveria» disinteressata (o, per dirla con Spinoza, la sympathia
malevolens) viene posta fondamentalmente da essa come qualità normale dell’uomo –:
qualcosa dunque, al quale la coscienza dice sì con tutto il cuore! Uno sguardo più profondo
potrebbe forse, ancora oggi, percepire quanto basta di questa remotissima e profondamente
radicata gioia festiva dell’uomo; in «Al di là del bene e del male», pp. 117 sgg. (e già prima in
«Aurora»: pp. 17, 68, 102) ho cautamente accennato alla sempre crescente spiritualizzazione e
«divinizzazione» della crudeltà, che corre attraverso tutta la storia della civiltà superiore (e,
vista in un’accezione significativa, addirittura la costituisce). In ogni modo non è poi trascorso
molto tempo da quando non si riusciva a immaginare nozze di principi e feste popolari in
grandissimo stile senza esecuzioni capitali, torture e sinanco un autodafé, e neppure un
governo aristocratico senza esseri sui quali si potesse spregiudicatamente dar libero corso
alla propria cattiveria e alle proprie beffe crudeli (– si ricordi Don Chisciotte alla corte della
duchessa; oggi noi leggiamo l’intero Don Chisciotte con un sapore amaro in bocca, quasi ne
fossimo torturati, e in ciò saremmo forse molto estranei, molto oscuri per il suo autore e per i
suoi contemporanei – questi leggevano il libro con la coscienza più tranquilla del mondo,
come il più sereno dei libri e ne ridevano da morire). Veder soffrire fa bene, far soffrire fa
ancora meglio – questa è una massima dura, ma una massima fondamentale, antica, potente,
umana – troppo umana, che forse potrebbe essere già sottoscritta dalle scimmie: infatti si dice
che esse, nell’inventare crudeltà bizzarre, fanno già abbondantemente pensare all’uomo e
quasi lo «anticipano». Senza crudeltà non c’è festa: questo insegna la più remota, la più lunga
storia dell’uomo – e anche la pena ha in sé molto di festivo!
7.
– Con questi pensieri, d’altra parte, non voglio affatto aiutare i nostri pessimisti a portare
acqua nuova agli striduli e cigolanti mulini del loro tedio della vita; al contrario, si deve