Page 43 - Nietzsche - Genealogia della morale
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migliori dei potenti, dei signori della terra, i cui sputi sono costretti a leccare (non per paura,

      assolutamente no! ma perché Dio ha ordinato di onorare ogni autorità) – che non sono solo
      migliori, ma anche che “stanno meglio”, o che comunque “staranno meglio”, un giorno. Basta!
      Basta! Non ne posso più. Aria viziata! Aria viziata! Mi sembra che questa officina dove si
      fabbricano ideali, sappia proprio di fetide menzogne». – No, ancora un attimo! Non mi avete
      ancora parlato del capolavoro di questi negromanti che da tutto ciò che è nero ricavano il
      bianco, il latte e l’innocenza – non avete notato, a qual grado di perfezione arrivano i loro
      procedimenti di raffinazione o il loro tocco d’artista audacissimo, finissimo, ingegnosissimo e

      falsissimo?  Fate  attenzione!  Questi  insetti  striscianti  gonfi  di  vendetta  e  d’odio  –  come  la
      trasformano la vendetta e l’odio? Avete mai ascoltato parole simili? Potreste mai immaginare,
      fidandovi solo delle loro parole, di trovarvi proprio in mezzo agli uomini del ressentiment? –
      «Capisco,  e  apro  ancora  una  volta  le  orecchie  (ahimè,  ahimè,  ahimè!  mi  tappo  il  naso).
      Adesso soltanto ascolto quello che andavano ripetendo senza sosta: “Noi buoni – noi siamo i
      giusti” – quello che esigono, non la chiamano ritorsione, ma “trionfo della giustizia” quello

      che odiano non è il loro nemico, no! essi odiano “l’ ingiustizia” “l’empietà”, quello in cui
      credono  e  sperano  non  è  la  speranza  della  vendetta,  l’ebbrezza  della  dolce  vendetta  (“più
      dolce del miele” – così già la chiamava Omero), ma la vittoria di dio, del dio giusto  sugli
      empi; quel che resta loro da amare sulla terra, non sono i loro fratelli nell’odio ma i loro
      “fratelli nell’amore”, come essi dicono, tutti i buoni e i giusti della terra». – E come chiamano
      quello  che  serve  loro  come  consolazione  per  tutte  le  sofferenze  della  vita  –  la  loro
      fantasmagoria della anticipazione di una beatitudine a venire? – «Come! Ho capito bene? Lo

      chiamano  “il  giudizio  universale”,  l’avvento  del  Caro  regno,  del  “regno  di  Dio”  –  nel
      frattempo, però, essi vivono “nella fede”, “nell’amore”, nella speranza». – Basta! Basta!

         15.
         Nella fede di che? Nell’amore di chi? Nella speranza di che? – Questi deboli! – a un certo

      momento,  infatti,  vogliono  anch’essi  essere  i  forti,  senza  dubbio,  e  un  bel  giorno  arriverà
      anche il loro «regno» – «il regno di Dio» lo definiscono semplicemente così, come si è detto:
      bisogna pur essere umili in tutto! Già solo per poter vivere questo, bisogna vivere a lungo,
      oltre  la  morte  –  anzi  bisogna  avere  una  vita  eterna,  per  potersi  consolare  eternamente,  nel
      «regno  di  Dio»,  di  quella  vita  terrena  vissuta  «nella  fede,  nell’amore,  nella  speranza».
      Consolarsi di che? Consolarsi con che?… Credo che Dante abbia commesso un grosso errore
      ponendo,  con  terrificante  ingenuità,  sulla  porta  del  suo  inferno  la  scritta  «fecemi  l’eterno
      amore»  –  su  quella  del  paradiso  invece  e  della  sua  «beatitudine  eterna»  potrebbe  stare,

      comunque a maggior diritto, l’iscrizione «fecemi l’eterno odio» – posto che una verità possa
      stare sulla porta che conduce a una menzogna! Infatti che cos’è la beatitudine di quel paradiso?
      …  Potremmo  forse  anche  indovinarlo,  ma  è  meglio  che  ce  lo  dimostri  chiaramente  una
      indiscussa autorità in materia, Tommaso d’Aquino, il gran maestro e santo. «Beati in regno
      coelesti – dice mansueto come un agnello – videbunt poenas damnatorum, ut beatitudo illis

      magis complaceat». o preferiamo sentircelo dire con accenti più forti, forse dalla bocca di
      uno di quei trionfanti Padri della Chiesa, che sconsiglia ai suoi cristiani i crudeli piaceri degli
      spettacoli  pubblici  –  e  perché  poi?:  «La  fede  ci  offre  molto  ma  molto  di  più  –  dice,  de
      Spectac.  c.  29  sgg.  –  qualcosa  di  molto  più  forte;  grazie  alla  redenzione  abbiamo  a
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