Page 41 - Nietzsche - Genealogia della morale
P. 41
continuare ad aver fede nell’uomo. Poiché è così: l’immiserimento e il livellamento
dell’uomo europeo cela in sé il nostro più grande pericolo, perché questo spettacolo rende
stanchi… Oggi non vediamo niente che voglia diventare più grande, si ha il presagio che tutto
continui ad affondare sempre più in basso, e si faccia sempre più sottile, più buono, più
intelligente, più confortevole, più mediocre, più indifferente, più cinese, più cristiano –
l’uomo, e questo è indubbio – si fa sempre «migliore»… E questo è appunto il fatale destino
d’Europa – col timore per l’uomo abbiamo perso anche l’amore, la venerazione, la speranza e
la volontà verso l’uomo stesso. La vista dell’uomo rende ormai stanchi – e che cosa è oggi il
nichilismo se non questo?… Siamo stanchi dell’uomo…
13.
– Ma torniamo indietro; il problema dell’altra origine del «buono», del buono visto
dall’uomo del ressentiment, deve essere risolto – Che gli agnelli non amino i grandi uccelli
predatori non sorprende nessuno: ma non autorizza certo a rimproverare i grandi predatori per
il fatto di cacciare gli agnellini. E se gli agnelli dicono tra loro: «Questi predatori sono
malvagi; e chi è rapace il meno possibile, anzi chi è addirittura l’opposto, un agnello cioè, non
dovrebbe essere buono?», non possiamo certo biasimare questo criterio di edificazione di un
ideale, anche se i predatori stessi considereranno la cosa con un certo scherno e si diranno
probabilmente: «Noi non li odiamo affatto, questi buoni agnelli, anzi li amiamo, niente è più
squisito di un tenero agnello». – Pretendere dalla forza che essa non si manifesti come forza,
che essa non sia volontà di sopraffazione, volontà di oppressione, di potere, che essa non sia
sete di nemici e di resistenze e di trionfi, è tanto assurdo come il pretendere dalla debolezza
che essa si manifesti come forza. Un quantum di forza è un preciso quantum di istinto, di
volontà, di azione – anzi non è altro che questo istinto, questa volontà, questa azione stessa, e
solo la seduzione del linguaggio (e degli errori fondamentali, in essa pietrificati, della
ragione) che intende e fraintende ogni agire come condizionato da un agente, da un «soggetto»,
può far apparire la cosa sotto una luce diversa. Così come infatti il popolo separa il fulmine
dal suo baleno e considera quest’ultimo come un fare, come l’azione di un soggetto che si
chiama fulmine, così la morale popolare separa la forza dalle manifestazioni della forza, come
se al di là del forse esistesse un sostrato indifferente, il quale sarebbe libero di manifestare o
no la forza. Ma un tale sostrato non esiste, non esiste nessun «essere» dietro il fare, l’agire, il
divenire: «colui che fa» è solo un accessorio inventato dal fare – il fare è tutto. Il popolo, in
fondo, raddoppia il fare; quando fa balenare il lampo, si tratta di un far-fare: l’avvenimento
viene posto prima come causa e poi, la seconda volta, come effetto di questa. I naturalisti non
si comportano diversamente, dicendo: «La forza muove, la forza produce» e via di seguito –
tutta la nostra scienza, malgrado tutta la sua freddezza o la sua liberazione dal sentimento,
soggiace ancora alla seduzione del linguaggio e non si è liberata dei falsi bastardi, dei
«soggetti» (l’atomo, per esempio, è uno di questi bastardelli, così come la «cosa in sé»
kantiana): nessuna meraviglia quindi se i sentimenti repressi di vendetta e di odio, ancora
ardenti sebbene nascosti, sfruttino questa fede ai propri fini, e, in fondo, non tengano viva più
profondamente altra fede se non quella nella libertà di scelta del forte di farsi debole, e
dell’uccello rapace di farsi agnello – col che si conquistano il diritto di imputare all’uccello
da preda il fatto di essere appunto un uccello da preda… Se, in preda all’astuzia assetata di