Page 39 - Nietzsche - Genealogia della morale
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nella concezione di una morale di schiavi – come appaiono diverse queste due parole
«cattivo» e «malvagio» apparentemente opposte allo stesso concetto di «buono»! Ma non è lo
stesso concetto di «buono»: chiediamoci invece chi è realmente «malvagio» nel senso della
morale del ressentiment. A rigor di termini: proprio il «buono» dell’altra morale, proprio
l’aristocratico, il potente, il dominatore, solo che esso appare ridipinto, reinterpretato, rivisto
dall’occhio avvelenato del ressentiment. E questa è una cosa che non vogliamo assolutamente
contestare: chi ha conosciuto quei «buoni» solo come nemici, non ha conosciuto altro che
nemici malvagi, e gli stessi uomini che vengono frenati così severamente dal costume, dalla
venerazione, dagli usi, dalla gratitudine e ancora di più dalla vigilanza reciproca, dalla
rivalità inter pares, e che d’altra parte nei rapporti interpersonali si dimostrano così fertili di
inventiva per quel che riguarda il rispetto, l’autocontrollo, la delicatezza di sentimenti, la
fedeltà, l’orgoglio e l’amicizia sono, all’esterno, dove ha inizio il mondo estraneo, lo
straniero, non molto migliori di bestie feroci sfrenate. Qui essi godono della libertà da tutti i
vincoli sociali, e, tornati selvaggi, si risarciscono della tensione accumulata durante una lunga
clausura e reclusione nella pace della comunità, ritornano all’innocenza della coscienza di un
rapace, come giocondi mostri, che si allontanano da tutta una serie di assassini, incendi,
profanazioni, torture con un’insolenza e con un equilibrio psicologico, come se tornassero da
una burla studentesca, convinti che i poeti avranno ormai qualcosa di nuovo da cantare e da
celebrare. Alla base di tutte queste razze aristocratiche non si può non riconoscere l’animale
da preda, la trionfante bestia bionda che vaga alla ricerca della preda e della vittoria; questo
fondo occulto, di tanto in tanto, ha bisogno di scaricarsi, l’animale deve uscire di nuovo alla
luce, tornare alla vita selvaggia, – nobiltà romana, araba, germanica, giapponese, eroi omerici,
vichinghi, scandinavi – si assomigliano tutti in questo bisogno. Sono state le razze nobili ad
aver lasciato, in tutti i luoghi percorsi, tracce del concetto di «barbaro»; anche la loro
massima cultura tradisce ancora una coscienza di ciò e il relativo orgoglio (per esempio
quando Pericle dice ai suoi Ateniesi, in quella famosa orazione funebre, «la nostra audacia si
è aperta una strada per ogni terra e per ogni mare, erigendosi dovunque monumenti imperituri
nel bene e nel male»). Questa «audacia» delle razze nobili, folle, assurda, improvvisa, il
modo con cui si manifesta, l’imprevedibilità e l’improbabilità stessa delle sue imprese –
Pericle sottolinea particolarmente la ῥαθυμία degli Ateniesi –, la loro indifferenza e il
disprezzo per la sicurezza, il corpo, la vita, le comodità, la loro terribile allegria, la
profondità del piacere provato in ogni distruzione, in tutte le ebbrezze di vittoria e di crudeltà
– tutto questo trovò il suo riepilogo, per coloro che ne dovettero soffrire, nell’immagine del
«barbaro», del «nemico malvagio», come i «Goti» o i «Vandali». La diffidenza glaciale e
profonda che il tedesco provoca ancora oggi non appena arriva al potere, – è sempre un’eco di
quell’orrore inestinguibile con cui per millenni l’Europa aveva guardato la bionda bestia
germanica (anche se tra gli antichi Germani e noi tedeschi non esiste quasi nessuna affinità
ideale, né tanto meno di sangue), Una volta ho richiamato l’attenzione sulla perplessità di
Esiodo che avendo escogitato la successione delle età della cultura, cercava di definirle con
l’oro, l’argento e il bronzo; ma non seppe risolvere la contraddizione che gli offriva il mondo
di omero così splendido e al tempo stesso così terribile e violento, se non dividendo un’età in
due epoche successive, la prima, quella degli eroi e semidei dι Troia e di Tebe, come era
conservata nella memoria delle stirpi aristocratiche che in essa avevano avuto i loro