Page 37 - Nietzsche - Genealogia della morale
P. 37
a sentirmi tacere. Infatti per me, a questo punto, c’è molto da tacere. –
10.
La rivolta degli schiavi ha inizio nella morale, nel momento in cui il ressentiment diventa
esso stesso creatore e produce valore: il ressentiment di quegli esseri cui è preclusa la
reazione vera, quella dell’azione, e che possono soddisfarsi solo grazie a una vendetta
immaginaria. Mentre tutta la morale aristocratica nasce da una trionfante affermazione di se
stessi, sin dallo inizio la morale degli schiavi nega un «di fuori», un «altro» e un «non io»: e
questa negazione è la sua azione creativa. – Questa inversione del giudizio che fissa i valori –
questo necessario volgersi all’esterno piuttosto che indietro, a se stessi – è propria appunto
del ressentiment: la morale degli schiavi ha sempre e innanzitutto bisogno, per nascere, di un
mondo esterno antagonista; ha bisogno, per servirci di termini psicologici, di impulsi esterni
per poter comunque agire – la sua azione, fondamentalmente, non è altro che reazione.
Opposto è il caso dei criteri di valutazione aristocratici: essi agiscono e crescono spontanei,
cercano il loro contrario solo per poter affermare se stessi con maggior gratitudine e maggior
gioia – il loro concetto negativo di «basso», «volgare», «cattivo» è solo una pallida,
posteriore immagine di contrasto in relazione al loro positivo concetto fondamentale, tutto
intessuto di vita e di passione, di «noi nobili, noi buoni, noi belli, noi felici!». Quando i criteri
di giudizio aristocratici compiono valutazioni errate e peccano contro la realtà, ciò accade in
relazione alla sfera che essi non conoscono abbastanza e dalla cui più reale conoscenza essi si
difendono ruvidamente: essi disconoscono, talvolta, la sfera che disprezzano, quella
dell’uomo comune, del basso popolo; si tenga presente d’altra parte che, in ogni modo, il
sentimento del disprezzo, del guardare dall’alto in basso, con superiorità, posto che questo
sentimento falsifichi l’immagine di ciò che si disprezza, non raggiungerà certo il livello di
falsificazione con cui l’odio arretrato, la vendetta dell’impotente aggredisce – in effigie
ovviamente – il suo avversario. In effetti, al disprezzo si mescola troppa noncuranza, troppa
superficialità, troppa distrazione e troppa impazienza, e addirittura troppa soddisfazione di sé
perché esso sia poi in grado di trasformare il suo oggetto in un’autentica caricatura e in un
mostro. Non sono certo da trascurare le nuances quasi benevole di cui per esempio
l’aristocrazia greca colora tutte le parole con le quali distingue da sé il basso popolo; la
continua presenza di una specie di dolcificante rammarico, di riguardo, di indulgenza, tanto da
far diventare quasi tutti i termini relativi all’uomo comune sinonimi di «infelice», «degno di
compassione» (cfr. δειλός, δείλαιος, πονηρός, μοχθηρός dove gli ultimi due termini
contrassegnano l’uomo comune come schiavo da lavoro e bestia da soma) – e come d’altra
parte «cattivo», «basso», «infelice» non hanno mai cessato di avere per l’orecchio greco un
solo tono, una coloritura in cui predomina il significato di «infelice»: e ciò quale eredità degli
antichi più nobili criteri di giudizio aristocratici che non si smentiscono neppure nel disprezzo
– (i filologi ricordino, l’uso corrente di οϊζυρός, ἄνολβος, τλήμων, δυστυχεῖν, ξυμφορά. I
«bennati» sentivano se stessi come «felici», non avevano bisogno di costruirsi la loro felicità
artificialmente volgendo lo sguardo ai loro nemici, né, in qualche caso, di autoconvincersene,
di inventarsela (come fanno invece tutti gli uomini del ressentiment); e poi essi, uomini
superdotati di forza e perciò stesso necessariamente attivi, riuscivano a non separare l’agire
dalla felicità – l’essere attivi era per loro considerato come qualcosa di attinente