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40 Novelle                                                              Hans Christian Andersen

                   «Erano almeno di buona famiglia? Brillavano per qualche virtù?...» — domandò il fondo di
            bottiglia.
                   «Che!» — fece l'ago da stuoie: «Ma avevano una superbia... Erano dieci fratelli, tutti della
            famiglia delle dita; e si tenevano molto uniti fra loro, sebbene fossero di statura diversa. Il
            maggiore, messer Pollice, era piccolo e grasso: non aveva che un'articolazione nella schiena, e non
            sapeva fare altro che un inchino solo; ma pretendeva che, se non c'era lui nella mano, l'uomo non
            poteva più andare alla guerra. Messer Leccapiatti, il secondo, si ficcava per tutto, nell'agro e nel
            dolce, segnava a dito persino il sole e la luna, e pretendeva che le impressioni, in tutto quanto si
            scriveva, fossero sue. Messer Lungo ch'era il terzo, guardava tutti gli altri d'alto in basso.
            Fasciadoro, il quarto, si pavoneggiava, perchè aveva una cintura dorata, stretta alla vita; ed il
            piccolo Pierino Balocchino non faceva nulla di nulla in tutto il giorno, e, per giunta, se ne teneva.
            Vanterie e spacconate, non si sentiva altro in quella famiglia; e per ciò me ne venni via.»
                   «Ed ora ce ne stiamo qui, e risplendiamo!» — disse il fondo di bottiglia.
                   In quella, entrò molta più acqua del solito nella chiavica, così che andò di fuori, ed il fondo
            di bottiglia fu portato via.
                   «Quello ha trovato la sua strada!» — pensò l'ago da stuoie. «Io, in vece, rimango; sono
            troppo fino. Ma questo è il mio orgoglio.» E se ne stava lì, superbamente, assorto ne' suoi pensieri.
            «Quasi quasi, direi d'esser nato da un raggio di sole, tanto sono sottile! Davvero che mi par sempre
            che i raggi di sole cerchino me, di sotto all'acqua. Ah, son così fino, che nemmeno mia madre mi
            trova più! Se avessi ancora il mio vecchio occhio, quello che mi si ruppe, quasi piangerei... Ma no;
            non lo farei davvero: piangere non è da gente fina.»
                   Un giorno, due monelli distesi a terra frugavano nella chiavica, dove alle volte trovavano
            vecchi chiodi, soldini ed altri simili tesori.
                   «Oh!» — gridò l'uno, che s'era punto con l'ago da stuoie: «Ecco un affare per te!»
                   «Non sono un affare, sono un gentiluomo!» disse l'ago.
                   Ma nessuno gli diede retta. La ceralacca s'era staccata e l'ago era divenuto nero; il nero però
            snellisce, ed egli si credeva ancora più fino di prima.
                   «Ecco un guscio d'ovo, che viene navigando!» — dissero i ragazzi: e appuntarono l'ago nel
            mezzo del guscio d'ovo.
                   «Le pareti bianche dànno risalto alla veste nera. Così va bene!» fece l'ago da stuoie,
            contento: «Così almeno mi si vede! Pur che non soffra il mal di mare...» Ma non gli venne male
            nemmeno un momento: «Contro il mal di mare giovano uno stomaco d'acciaio e la coscienza
            d'essere qualche cosa di più degli altri. Così, non ho punto sofferto: più si è persone fini, e più si è
            resistenti.»
                   «Crac!» — fece il guscio d'ovo, perchè un baroccio, passando il rigagnolo, l'aveva
            schiacciato.
                   «Giusto cielo! Come si rimane affranti!» — disse l'ago: «Ora sì, che mi verrà mal di mare...
            Ah, mi rompo, mi rompo!»
                   Ma non si ruppe, in vece, sebbene la ruota gli passasse sopra. Rimase lì, lungo disteso, per
            un pezzo ancora: — e là lo possiamo lasciare.





















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