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40 Novelle Hans Christian Andersen
L'AGO
C'era una volta un ago da stuoie, tanto convinto d'esser fino, che per poco non si credeva un
ago da cucire.
«Badate di tenermi stretto!» — disse alle dita che lo cavarono fuori. «Non mi lasciate
cadere; se no, per terra, sarà ben difficile ritrovarmi: sono così fino!...»
«La andrà come l'andrà!» — dissero le dita, e presero l'ago a mezzo il corpo.
«Vedete, eh? Ora vengo, e col mio bravo seguito!» — disse l'ago da stuoie, e si tirò dietro
una lunga agugliata; ma nel filo non c'era nodo.
Le dita appuntarono l'ago proprio nella ciabatta della cuoca, perchè il tomaio era scoppiato e
bisognava darvi due punti.
«È un lavoro troppo grossolano,» — disse l'ago da stuoie: «Non ne verrò mai a capo. Mi
rompo! mi rompo!» E si ruppe davvero. «Non ve l'ho detto? — esclamò: «Sono troppo fino, troppo
fino!»
«Ora, poi, non è più buono a nulla!» — dissero le dita; ma dovettero tenerlo stretto ancora
un po', perchè la cuoca vi fece cadere una goccia di ceralacca, a mo' di capocchia, e se ne servì per
appuntare lo sciallino davanti.
«Eccomi divenuto uno spillo da signora!» — disse l'ago da stuoie: «Lo sapevo io, che avrei
fatto carriera! Quando si ha qualche cosa in sè, a qualche cosa si giunge sempre!»
E rise pianino, tra sè; ma non si può mai vedere quando gli aghi ridano. Se ne stava superbo
al suo nuovo posto come se guidasse un tiro a quattro, e si guardava attorno.
«Scusi la domanda: è d'oro lei?» — disse l'ago allo spillo suo vicino: «Ella fa un'eccellente
figura: si vede che ha testa, anche se non è molto grande. Bisogna che si sforzi di crescere: non a
tutti tocca la fortuna che la ceralacca piova sul loro capo!»
E l'ago da stuoie alzò il capo con tanta alterigia, che cadde fuor dalla pezzuola proprio
dentro all'acquaio, dove la cuoca stava rigovernando.
«Eccoci partiti per un nuovo viaggetto!» — disse l'ago: «Pur che non mi perda...»
In vece andò davvero perduto.
«Son troppo fino per questo mondo!» — pensava, mentre giaceva in fondo alla chiavica.
«Ma almeno conosco me stesso, ed è sempre una consolazione.»
Così l'ago da stuoie serbò i suoi modi alteri, e non perdette il buon umore. Passavano,
galleggiando sopra il suo capo, oggetti d'ogni sorta: cenci, fuscelli di paglia, brani di vecchi
giornali.
«Ma guarda come navigano!» — diceva l'ago da stuoie: «Non sanno, essi, chi sta qui sotto!
Ed io sono qui, e qui rimango fermo. Guarda, ecco un cencino che passa; e in tutto il mondo non sa
trovar altro di meglio cui pensare che se stesso... un cencio! Ecco una paglia ora! Come gira e rigira
intorno a se stessa! Pensa anche a qualcos'altro, figliuola! A non aver occhi che per se stessi, c'è da
andar a battere contro qualche pietra. Ecco un pezzetto di giornale, che nuota. Quello che c'è scritto
sopra è bell'e dimenticato da un pezzo; e pure si dà certe arie! Quanto a me, sto qui tranquillamente,
pazientemente. So chi sono, e quello che sono rimango.»
Un giorno, gli si posò accanto qualche cosa che luccicava, e l'ago da stuoie lo credette un
diamante; ma non era che un pezzetto di bottiglia rotta; e perchè luccicava così, l'ago gli rivolse la
parola e gli si presentò come spillo da cravatta.
«Voi siete un diamante, m'immagino...»
«Sì, qualche cosa di simile.»
E allora ognuno dei due credette che l'altro fosse un oggetto di gran prezzo; ed
incominciarono a parlare del mondo e di quanta boria c'era in giro.
«Abitavo nella scatola di una signora;» — raccontò l'ago da stuoie: «questa signora era una
cuoca e aveva, cinque dita per ogni mano: non ho mai veduto gente più boriosa di quelle dita. E per
maneggiarmi, per cavarmi fuori dalla scatola e ripormivi, non c'eran che loro.»
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