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40 Novelle                                                              Hans Christian Andersen

            fruttò circa duecento lire, e fu convenuto che Hans incomincerebbe il giorno dopo a prender lezione
            di canto dal professore Weyse. La disperazione del ragazzo si tramutò allora in una gioia così
            grande, ch'egli scrisse subito alla mamma una  lettera esultante, dicendole che oramai «aveva
            acciuffata la fortuna.»
                   Per quasi un anno, aiutato dal buon Siboni, dal Weyse e da due o tre altri pietosi, cui
            l'Andersen serbò sino all'ultimo riconoscenza, potè studiare il canto; e ci mise infatti tutto
            l'impegno. Ma Hans, sempre grato per quanto gli si donava, sarebbe morto anzi che domandare
            qualche cosa di più a' suoi benefattori: una megera presso la quale alloggiava, in una soffitta mal
            riparata, spennava senza misericordia l'inesperto anitroccolo; e per ciò in quei mesi, malgrado
            l'aiuto de' suoi benefattori, il povero figliuolo stentò miseramente la vita. Le privazioni, il freddo
            patito portarono la più disastrosa conseguenza: la perdita della voce, sulla quale fondava tutte le sue
            speranze.
                   Allora, anche il maestro Siboni lo consigliò di tornare a  Odense e d'imparare un buon
            mestiere; ma a questa Hans non voleva venire. Il suo sogno era sempre il teatro... e si provò persino
            a frequentare una scuola di ballo, sebbene il suo personale lo rendesse meno adatto di ogni altro a
            tale carriera. Ma l'essere allievo della scuola  di ballo annessa al Teatro Regio, gli dava libero
            accesso al palcoscenico, permettendogli di goder lo spettacolo di tra le quinte; e questa era tal gioia,
            che non gli pareva di certo pagata cara a prezzo di quattro sgambettate.
                   Un giorno gli venne una buona ispirazione. Si ricordò che a Copenaghen abitava il poeta
            Federico Hoegh-Guldberg, fratello di un colonnello ch'era stato molto buono con lui, quand'era a
            Odense; ne cercò l'indirizzo, e  gli scrisse domandandogli un colloquio. Il poeta lo ricevette con
            grande bontà; si convinse che il ragazzo aveva tali  doti naturali, da meritare davvero di essere
            aiutato; e, visto che quel po' di tedesco che aveva imparato in casa del Siboni, non valeva molto più
            dell'ortografia danese del biglietto scritto a lui, si offerse d'insegnargli, egli stesso, il danese e il
            tedesco. A poco a poco,  prese a volergli bene; destinò a lui  il ricavato di un libro che stava
            pubblicando, gli fissò un piccolo mensile, e lo mandò a proprie spese da un maestro di latino.
                   Hans si mise a studiare; ma era così indietro, così indietro... e la grammatica gli sembrava
            una via tanto lunga per giungere al suo sospirato teatro!... Non sapeva ancora che non v'ha maniera
            facile nè lesta per fare le cose difficili; non sapeva che, per far fruttare l'ingegno affidatoci dalla
            Provvidenza, non v'ha se non una maniera sola: lavorare. Per ciò, spesso trascurava un po' i libri,
            per voler comporre drammi e tragedie, di cui infliggeva poi la lettura a quanti poteva sequestrare.
            Naturalmente, i quattro direttori del Teatro Nazionale respingevano ogni volta i suoi lavori, dicendo
            che non erano adatti alla scena, che rivelavano un'assoluta mancanza di studio e di preparazione,
            ecc. ecc. Ma egli non si scoraggiva, sicuro che alla fine avrebbe vinto. E questi lavori, sebbene gli
            procurassero qualche lavata di capo dal buon Guldberg, formavano la sua felicità, in mezzo agli
            stenti di quel tempo.
                   Era così entusiasta di una sua tragedia  Alfsol scritta allora allora, che un giorno andò a
            trovare l'Ammiraglio Wulff, il traduttore danese dello Shakespeare: «Lei ha tradotto Shakespeare?»
            — disse il ragazzo entrando: «Ed anch'io lo ammiro immensamente; ma ho scritto una tragedia
            originale. La prego di starla a sentire.» E, senza aspettare risposta, gliela lesse, tutta d'un fiato.
                   Un'altra volta andò da Just Matthias Thiele,  il celebre raccoglitore delle novelle popolari
            danesi. Entrò, fece un profondo inchino, buttò il cappello in un angolo, e disse senz'altro: «Permette
            Vossignoria che le esprima le mie idee sul teatro, in un lavoro di mia composizione?» Prima che il
            Thiele potesse riaversi dalla sorpresa, gli spifferò una lunga tirata, passando poi, senza dargli tempo
            di fiatare, a varie scene della sua tragedia, in cui sostenne da sè, naturalmente, tutte le parti. Poi fece
            un altro profondo inchino, come usano gli attori al proscenio, e se ne andò, senza dare al Thiele
            nemmeno la sodisfazione di sapere con chi avesse a fare.
                   Anche la tragedia, che era piaciuta ad un vecchio prete amico dell'Andersen, non fu accettata
            dai direttori del teatro. Ma poi che ad uno di essi, il Rahbek, era stata dal prete raccomandata, egli si
            prese la briga di leggerla; e giudicò che, pure essendo tutt'altro che una buona tragedia, il giovane
            autore vi rivelava tali facoltà, che meritavano d'esser coltivate. La fece per ciò vedere anche al suo
            illustre collega Consigliere Jonas Collin, il quale, informatosi subito delle condizioni e del carattere

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