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40 Novelle                                                              Hans Christian Andersen

            bagnata. Quella città, dove ad ogni passo le vecchie pietre parlano di vecchie leggende paurose, si
            chiama Odense. Figuratevi, per dirvi s'è antica, che quando la bella Copenaghen, ch'è ora la capitale
            della Danimarca, non era se non un umile villaggio di pescatori, i ricchi cittadini di Odense
            ospitavano i re e i principi con  magnificenza più che regale; e, per mostrare il loro disprezzo
            dell'economia, bruciavano sugli ampii focolari,  in vece della legna comune, il cinnamomo, —
            bruciavano, cioè, alberi interi, venuti dall'Oriente, di quella cannella che noi si compra a pezzetti dal
            droghiere. Non che facessero bene, e non l'avran fatto sempre, mi figuro; ma quello spreco aveva la
            sua ragione, e se si racconta ancora oggi, gli è che voleva significare agli ospiti regali come Odense
            fosse ricca abbastanza da non aver bisogno di loro, e da potere anche difendere al caso il tesoro più
            prezioso di tutti, la libertà.
                   Odense è la città più antica e veneranda della Scandinavia; si dice anzi che suo primo
            borgomastro fosse niente meno che Odino... (Anche  quelle di Odino e di  Thor, gli antichi Dei
            pagani della Scandinavia, che magnifiche novelle!) Un tempo, la cattedrale era dedicata a
            Sant'Albano; ora è dedicata a San Knud, da quando, dieci secoli or sono, Re Knud fu ucciso, presso
            all'altare, dove erasi rifugiato per salvarsi da' suoi persecutori pagani. Oggi ancora, se andaste a fare
            un bel viaggio sin là, vi menerebbero a vedere un gorgo profondo nel fiume, e vi racconterebbero
            che c'è sepolto il famoso campanone, di cui troverete più innanzi la storia: e poi vi condurrebbero
            dinanzi al monumento dell'Andersen, perchè il Re delle fiabe è nato proprio a Odense, il 2 aprile
            1805.
                   È nato in una di quelle case dal tetto acuminato, ma in una povera stanzuccia a terreno, che
            serviva insieme di camera, di cucina e di bottega, perchè il suo babbo era ciabattino. Un immenso
            lettone occupava quasi metà della stanza, ed era un lettone curioso, chiuso da ampii parati a fiorami
            e con certi avanzi di dorature, qua e là, sul fusto nero, perchè il povero ciabattino l'aveva fabbricato
            da sè, col legname di un catafalco ch'era servito una volta nei solenni funerali di un barone. Le
            pareti della stanzuccia erano tutte coperte di figurine, che il ciabattino ci aveva impastate, e sui
            battenti della porta eran dipinti rozzi paesaggi dagli alberi così inverosimili, che non so se fossero
            parenti lontani delle stoppie di Pollicina o della foresta di polipi traversata da Sirenetta. Accanto alla
            finestra c'era il deschetto e, lì presso, uno scaffale pieno di libri, di commedie e di poesie; sul
            davanzale, vasi di menta e di altre umili erbe  odorose; sul cassettone, insieme con le scodelle
            colorate del tè, varii gingilli, di quelli che ai bambini sembrano preziosi e non escono di niente mai
            più... perchè non è permesso di toccarli. In primavera, poi, tutto prendeva un aspetto di festa, perchè
            dalle pareti e sin dalle fessure della travatura pendevano freschi rami verdi e fiori di campo, che il
            ciabattino metteva un po' da per tutto.
                   Ma la stanza era piccina e il letto troppo grande, e per ciò, sin che il ciabattino lavorava, non
            c'era posto per rifare il lettino provvisorio  del suo bambino. La sera, quando veniva l'ora di
            coricarlo, la mamma lo metteva al sicuro, in tanto, dietro le cortine del lettone grande, sin che fosse
            possibile di preparargli una certa panca che somigliava molto, sentirete, a quella del piccolo Tuk.
            Veduta a traverso dei parati a grandi fiorami, la lucerna che pendeva sul deschetto sembrava un
            lumicino lontano lontano, che apparisse di tra i rami di una meravigliosa foresta: e chiuso là dentro,
            il bambino ora s'immaginava di essere in una casina fatata, piccina piccina, anche più piccola della
            sua; ora... di essere dietro al sipario di un teatrino di burattini. Ah, i burattini!... Erano la sua grande
            passione: se li fabbricava, ne cuciva, ne mutava e  rimutava i vestiti, faceva recitar loro lunghi
            drammi spettacolosi e tragedie terribili, accozzando insieme quel che frullava nel suo cervellino e
            quel che vi era penetrato nel dormiveglia, mentre stava dietro alle cortine del lettone e udiva suo
            padre declamare le commedie di Ludovico Holberg, ch'è il Goldoni danese, o leggere le Mille e una
            notte e le favole del La Fontaine.
                   Perchè suo padre non avrebbe fatto che leggere e studiare, in vece di lavorare da ciabattino.
            S'era rassegnato a imparare il mestiere quando il nonno Andersen era impazzito e l'avevan dovuto
            rinchiudere nell'ospizio dei poveri: ma non lavorava volontieri, e per ciò gli affari gli andavano
            sempre male. La nonna era una cara donnina, dai miti occhi azzurri, così piccina, che un soffio
            l'avrebbe atterrata, così forte, che la sventura non valse a turbarne la pacata dolcezza di modi, nè a
            spegnerne il sorriso. Essa coltivava un piccolo giardino, presso  l'ospizio dove suo marito era

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