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40 Novelle                                                              Hans Christian Andersen

            ricoverato, e la domenica portava al nipotino Hans grandi mazzi di fiori, ch'egli cercava di
            conservare più a lungo che poteva, con ogni cura. Due volte l'anno, la nonna usava bruciare i rifiuti
            del giardinetto, in un grande sterrato dell'ospizio; ed il piccolo  Hans andava ad  aiutarla, e ad
            assisterla al rogo del fiori morti e dell'erbe secche; e in quei giorni all'ospizio mangiava un po'
            meglio che non mangiasse di solito a casa. Seguiva, tra impaurito e curioso, i malati che giravano
            per il cortile, e tendeva l'orecchio ai canti ed ai discorsi sconnessi. Col nonno, non aveva parlato che
            un'unica volta; il nonno gli aveva dato del Lei, ed il bambino n'era rimasto molto colpito. Il povero
            vecchio aveva però un'abilità speciale, che il nipote in certa misura ereditò. Sapeva intagliare nel
            legno ogni sorta di bizzarre figurine — uomini con la testa di bestie, leoni e cavalli con le ali, e
            balocchi di mille strane forme che facevano rimaner lì a pensare che cosa propriamente volessero
            essere.
                   Anche il babbo, del resto, sapeva fabbricargli tanti balocchi. Gli aveva fatto un bel molino
            che, quando la ruota girava, faceva ballare anche il mugnaio; e certe figurine che, a tirar un filo,
            mutavano la testa, e bambole di cenci, poi, non so quante, e burattini per il teatro. Il babbo giocava
            sovente con lui, e la domenica se lo conduceva in campagna, per prati e per boschi, sin che stanchi
            si sedevano a terra, — e allora il babbo cavava di tasca un libro e leggeva. Felice di aver trovato un
            ascoltatore sempre pronto ed attento, leggeva al piccino pagine e pagine; e tante volte eran cose
            ch'egli non poteva capire. Ma Hans non batteva palpebra; fissava il babbo con que' suoi piccoli
            occhi tagliati alla cinese, e poi, tornato a casa, ruminava per ore ed ore quello che aveva udito. Il
            suo posto preferito per tali meditazioni era nel cortile, presso ad un cespuglio d'uva spina che n'era
            l'unica verzura. Tra il cespuglio ed il muro, Hans spiegava a mo' di tenda un grembiale della
            mamma, aiutandosi con un manico di scopa piantato in terra; e là rimaneva, per intere giornate. La
            mamma, Anna Maria, si contentava che stesse buono, che non desse noia, e del resto lo lasciava nel
            suo cantuccio o sotto la tenda, a fantasticare od a cucire i vestiti dei burattini. Si provarono, è vero,
            un paio di volte a mandarlo alla scuola; ma poi che il bambino non ci andava volentieri, e i
            compagni avevano preso a canzonarlo per il suo naso troppo grande e per  le sue gambe troppo
            lunghe, babbo e mamma, sventuratamente, non insistettero, ed a farlo studiare nessuno pensò più.

                                                           * *

                   Il povero ciabattino aveva il capo pieno di poesia e di idee generose, ma anche, ahimè, di
            idee false, frutto di tante letture mal digerite. Era fanatico ammiratore di Napoleone I, e la fortuna
            del suo eroe prediletto gli sembrava legittimare ogni più pazza ambizione. Un bel giorno, decise di
            arruolarsi, con la speranza di  tornare «almeno almeno luogotenente», e piantò il deschetto e la
            famigliuola. Ma era giunto appena ad Holstein che fu conchiusa la pace del 1815; ed egli dovette
            tornarsene a Odense, rifinito dai disagi e dalle privazioni di quei pochi mesi. Malaticcio com'era
            stato sempre, non si riebbe più, e morì l'anno dopo, a trentacinque anni. La vedova di lì a poco si
            rimaritò con un altro ciabattino, un buon uomo, di nome Jürgensen, ed il povero Hans rimase
            sempre più abbandonato a se stesso. Lo misero per qualche tempo a lavorare in una fabbrica di
            panni; ma egli, poco avvezzo alle monellerie dei ragazzi della sua età, non se la diceva coi
            compagni; e allora la madre si persuase facilmente a tenerlo a casa, dove continuò a vestire i suoi
            fantocci, a giocare al teatrino e a divorare qualunque libro gli capitasse tra mano.
                   Metteva insieme le commedie da sè, con reminiscenze delle letture fatte o delle novelle udite
            raccontare; e in fondo al libretto del congedo  militare di suo padre segnava, con una bizzarra
            ortografia, i titoli delle commedie che avrebbe poi  scritte da grande. In tanto si struggeva di
            comporne una dove entrassero re e regine: ma il difficile era trovare una lingua abbastanza di lusso
            per far parlare personaggi così altolocati. Ne domandò a sua madre e ad alcune vecchine della casa
            di ricovero, sue grandi amiche, le quali gli raccontavano sempre tante novelle di re e di principesse;
            ma non seppero dirgli nulla di positivo. Da tanto tempo non venivano a Odense re nè principi...
            Certo, però, simili personaggi avranno parlato in qualche lingua straniera. E allora il piccolo Hans,
            trovato tra i libri del suo povero babbo un manuale di conversazione tedesca, inglese e francese, con
            la traduzione danese a fronte, compose per i suoi re un gergo speciale, poliglotta, con uscite di

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