Page 22 - A spasso con Bob
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morire  di  preoccupazione»,  mi  gridò  fuori  di  sé  quando  si  decise  a  parlarmi.  Io

          accampai qualche scusa patetica, ma lui continuò a inveire.
             Mi urlò anche che mia madre gli aveva telefonato più volte e che era disperata
          perché non aveva più mie notizie. Questo mi diede la misura dello stato di angoscia

          in cui si trovava perché i due si evitavano da secoli. Papà continuò a sbraitare per
          cinque  minuti  e  solo  adesso  capisco  che  quello  sfogo  fu  un  misto  di  rabbia  e  di
          sollievo. Probabilmente mi aveva creduto morto, il che, in un certo senso, era vero.
             Dopo circa un anno di quella vita alcuni volontari di un’associazione caritatevole
          mi tolsero dalla strada e trovai rifugio in diversi centri di assistenza e dormitori. E

          alla  fine  venni  inserito  nell’elenco  dei  soggetti  che  avevano  priorità  assoluta  a
          ricevere  un  alloggio  per  indigenti.  Il  problema  fu  che  per  i  successivi  dieci  anni
          passai gran parte del mio tempo in ostelli e alloggi squallidi, dividendo il mio spazio

          con eroinomani e fumatori di crack pronti a rubarti tutto quello che non riuscivi a
          nasconderti  addosso:  io  tenevo  ogni  cosa  sotto  i  vestiti  e,  credetemi,  la  lotta  per
          sopravvivenza era durissima.
             Avevo quasi trent’anni ed ero un tossico: dovevo uscire da quella situazione.
             Fu proprio allora che presi finalmente la decisione di rivolgermi a una comunità

          di recupero per iniziare un programma di disintossicazione. Per diversi mesi la mia
          vita fu quella di un automa: con la mente annebbiata andavo tutti i giorni in farmacia
          e ogni due settimane incontravo gli assistenti della comunità. Non c’era altro nella

          mia esistenza.
             Ogni  tanto  avevo  dei  colloqui  con  psicologi  e  assistenti  sociali,  parlavo
          ininterrottamente di come avevo iniziato e di come volevo smettere. Per un tossico è
          facile accampare scuse su perché si finisce in quell’inferno, ma io sapevo di essere
          caduto  nella  droga  per  colpa  della  solitudine.  L’eroina  mi  faceva  dimenticare

          l’isolamento in cui vivevo, smettevo di pensare di non avere una famiglia, nel vero
          senso della parola, o una cerchia di amici. Ero sempre solo e, per quanto strano o
          assurdo possa sembrare, l’eroina era diventata la mia unica compagna.

             Ma in fondo al cuore sapevo altrettanto bene che la droga mi stava uccidendo,
          letteralmente.  Ci  vollero  un  paio  di  anni,  ma  riuscii  a  passare  dall’eroina  al
          metadone. Nella primavera del 2007 il programma che avevo seguito prevedeva che
          fossi pronto a ricominciare una nuova vita.
             L’assegnazione dell’alloggio a Tottenham faceva parte del progetto di recupero:

          un caseggiato popolare ma per gente normale ed era questa la mia opportunità per
          rimettermi in carreggiata.
             Cominciai  a  suonare  la  chitarra  in  strada,  dalle  parti  di  Covent  Garden,  non

          guadagnavo un gran che, ma quanto bastava per comprarmi un pasto caldo, pagare il
          modesto affitto e le bollette. Inoltre quella routine mi aiutava a dare un senso alla
          mia esistenza quotidiana: sapevo che mi era stata offerta una seconda occasione e
          che non dovevo farmela sfuggire. Se fossi stato un gatto, quella sarebbe stata la mia
          nona e ultima vita.
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