Page 20 - A spasso con Bob
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danni che stavo facendo e anche dei guai ben peggiori in cui mi sarei cacciato se non

          mi fossi liberato subito da quella dipendenza. Si comportò come tutte le madri che
          hanno  un  figlio  drogato.  Mi  frugava  nelle  tasche  e  un  paio  di  volte  mi  chiuse  in
          camera, ma in casa non c’erano le serrature con la chiave, solo quei pomelli con una

          specie  di  pulsante  nel  mezzo  che  io  riuscivo  abilmente  a  far  scattare  con  una
          semplice forcina. Nessuno poteva chiudermi in gabbia, questo era ciò che pensavo
          allora.
             Le discussioni con lei divennero sempre più frequenti e violente e le cose tra noi
          peggiorarono. A un certo punto mi portò anche da uno psichiatra, tanto era disperata,

          e il dottore disse che avevo tutto, dalla schizofrenia alla depressione maniacale, mi
          diagnosticò anche la sindrome da deficit di attenzione e iperattività. Ovviamente per
          me le sue erano tutte stronzate. Ero un adolescente confuso che credeva di saperne

          una più degli adulti. Se adesso, con il senno di poi, ripenso a quel periodo, mi rendo
          conto che mia madre deve aver sofferto molto per colpa mia, si sentiva impotente e
          terrorizzata  da  ciò  che  mi  stava  succedendo.  Ma  ai  tempi  non  mi  importava  un
          accidenti di quello che gli altri pensavano e non davo retta a nessuno.
             La situazione peggiorò a tal punto che per un certo periodo me ne andai a vivere in

          un centro di accoglienza. Passavo il tempo a drogarmi e a suonare la chitarra, non
          necessariamente in quell’ordine.
             Verso  il  diciottesimo  compleanno  annunciai  a  mia  madre  che  volevo  andare  a

          Londra  dalla  mia  sorellastra,  la  figlia  che  mio  padre  aveva  avuto  dal  precedente
          matrimonio.  Quello  rappresentò  il  punto  di  non  ritorno  e  fu  lì  che  cominciai  a
          sprofondare nel baratro.
             Ai tempi sembrava che la decisione di partire fosse assolutamente normale per un
          ragazzo della mia età. Mia madre mi diede un passaggio in auto fino all’aeroporto.

          Fermi a un semaforo rosso, le feci un buffetto sulla guancia, presi il mio zaino e
          saltai giù, salutandola con la mano. Pensavamo tutti e due che sarei stato via per non
          più di cinque o sei mesi e che nel vecchio continente avrei cercato di realizzare il

          sogno di diventare musicista. Le cose non andarono come le avevo immaginate.
             Come ho detto, andai a stare dalla mia sorellastra in un quartiere nella zona sud di
          Londra, ma mio cognato non era affatto contento di avermi con loro.  Ero un dark
          ribelle  e  continua  fonte  di  problemi,  non  ultimo  il  fatto  che  non  contribuivo  alle
          spese di casa.

             In  Australia  avevo  lavorato  come  commesso  in  un  negozio  di  telefonia,  ma  in
          Inghilterra  non  ero  riuscito  a  trovare  uno  straccio  di  lavoro,  salvo  quello  di
          cameriere in un pub. Mi avevano però licenziato quasi subito perché la mia faccia

          non  piaceva  ai  proprietari  e  perché,  probabilmente,  ero  stato  usato  per  coprire
          un’assenza  temporanea.  Come  se  non  bastasse,  i  miei  datori  di  lavoro  avevano
          scritto una lettera alla previdenza sociale, sostenendo che ero stato io ad andarmene,
          così non avevo potuto neanche riscuotere il sussidio che mi spettava come cittadino
          britannico.
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