Page 16 - A spasso con Bob
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Bob di Twin Peaks», le dissi ricevendo in cambio uno sguardo perplesso.

             Non mi importava, avevo deciso: l’avrei chiamato Bob.
             Un  fatto  a  sostegno  dell’ipotesi  che  il  mio  nuovo  amico  non  fosse  un  gatto
          domestico era che tutte le volte che doveva fare i suoi bisogni si rifiutava di andare

          nella lettiera, e dovevo portarlo all’aperto, nel giardinetto del palazzo. Raspava un
          po’ il terreno e quando aveva finito ricopriva il tutto con la terra.
             Osservando questo rituale tutte le mattine, mi chiesi se per caso fosse appartenuto
          a una comunità di nomadi. Non molto tempo prima a Tottenham degli zingari si erano
          accampati non lontano dal mio caseggiato. Forse, lo avevano lasciato lì quando se

          n’erano andati. Il suo passato era per me ancora avvolto dal mistero.
             Giorno dopo giorno mi affezionavo sempre di più a Bob e penso di poter dire che
          valeva  anche  per  lui. All’inizio  si  era  mostrato  un  po’  diffidente,  mai  poi  aveva

          cominciato a rilassarsi e a manifestarmi la sua amicizia. La nostra convivenza aveva
          preso una piacevole routine.
             La  mattina  uscivo  di  buon’ora,  raggiungevo  il  centro  e  suonavo  fino  a  quando
          avevo guadagnato il necessario, poi tornavo a casa e me lo trovavo dietro la porta
          d’ingresso ad aspettarmi.

             Avevamo anche raggiunto un’ottima intesa perché capiva i miei gesti e quello che
          gli dicevo. Se battevo il palmo della mano sul cuscino del divano, lui con un balzo
          leggero mi raggiungeva e mi si acciambellava vicino. Tutte le volte che gli dicevo

          che era l’ora delle medicine, lui mi guardava con quei suoi piccoli fanali verdi come
          per rispondere: Devo proprio? ma non opponeva resistenza mentre io gli posavo le
          pastiglie sulla lingua e gli accarezzavo il collo aspettando che le ingoiasse.  Gran
          parte dei gatti si sarebbe ribellata, ma non lui, perché ormai si fidava di me. Non
          avevo  più  dubbi,  Bob  non  era  come  gli  altri  animali  che  avevo  avuto,  era

          decisamente speciale. Questo non vuol dire che fosse perfetto. Sapeva, per esempio,
          che tenevo il suo cibo in cucina e quando aveva fame sembrava Attila: distruggeva
          tutto  quello  che  trovava  sul  suo  cammino  e  artigliava  le  antine  dell’armadio  e  la

          porta del frigorifero cercando in tutti i modi di aprirle.
             Ma, a essere sinceri, era anche ubbidiente. Se gli dicevo: «No, via da lì, Bob»,
          capiva e lasciava perdere. Un altro segno della sua intelligenza.
             Sapevo che non dovevo affezionarmi troppo, perché era uno spirito libero e prima
          o  poi  avrebbe  deciso  di  tornare  a  vivere  in  strada.  Non  era  un  gatto  che  potevi

          chiudere in gabbia.
             Ma, anche se solo per un periodo limitato, io sarei stato il suo angelo custode ed
          ero  più  che  risoluto  ad  assolvere  quel  mio  compito  con  puntualità  e  precisione.

          Sapevo anche che dovevo fare tutto il possibile per prepararlo se mai avesse deciso
          di riprendere la sua vita randagia, così compilai il modulo per la castrazione che il
          veterinario mi aveva consegnato. Lo spedii per posta e dopo un paio di giorni, con
          mia grande sorpresa, mi arrivò l’invito a recarmi al centro.
             Il giorno successivo portai fuori Bob per i suoi bisogni e lui si diresse spedito
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