Page 51 - Il mostro in tavola
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sbagliato: si acquistano più prodotti del necessario oppure prodotti che facilmente possono
deperire. Dietro allo spreco si nascondono molti limiti del nostro sistema alimentare. Uno
dei fantasmi che assillano gli agricoltori italiani è l’abbandono nel campo dei prodotti, che
per via dei costi poco competitivi non vengono raccolti (vedi capitolo «Frutta bacata»).
Nel 2009 sono stati lasciati a marcire al sole ben 17,7 tonnellate di prodotti, si parla di più
del 3% della produzione. Tra le varie motivazioni, il costo della manodopera, che diventa
sempre più onerosa rispetto ad altri paesi, motivo per cui aumenta il lavoro nero e
sottopagato nei campi. Il peggio è che con tutti quei prodotti agricoli non raccolti,
abbiamo perso l’occasione di incassare una cifra spaventosa: 6 miliardi e mezzo di euro.
Si crea un paradosso per cui spendiamo per consumare e nonostante ciò riusciamo a creare
un mancato guadagno. Questa diseconomia di mercato è il chiaro sintomo della malattia
cronica di un’economia che nuoce a se stessa. Capire dove si crea lo spreco è il modo per
capire dove possiamo riparare il nostro sistema alimentare ed economico. Riconoscere gli
errori è già un buon inizio. Ora vediamo tutte le possibili declinazioni di questo problema,
in modo da riuscire a starne alla larga.
Spreco è anche sinonimo di inquinamento: l’impronta di carbonio, ovvero la quantità di
emissioni di gas serra per la produzione della quantità di cibo che viene sprecata, libera
nell’atmosfera tonnellate e tonnellate di anidride carbonica. In Gran Bretagna, gli sprechi
generano 25,7 milioni di tonnellate di CO2, negli Stati Uniti si arriva fino a 112,9 milioni
di tonnellate. Le unità di misura dell’inquinamento sono più o meno queste: per ogni
tonnellata di cibo sprecato, si disperdono 1,9 tonnellate di CO2 nell’aria (fonte DG
Environment). Un inquinamento così alto si basa anche sul nostro stile di vita, certo è che
ogni prodotto alimentare ha la sua impronta di anidride carbonica, e molto dipende da cosa
scegliamo di acquistare. Come sostiene il giornalista Tristan Stuart, nel suo mirabile libro
Sprechi, dovremmo imparare a scegliere quei prodotti che inquinano meno.
Ma una cosa su cui davvero è difficile fare un ragionamento pacato e composto è la
quantità di carta, cartone e plastica che gettiamo via. Parlando per ipotesi, se dovessimo
abitare nella stessa casa in cui fossimo costretti a conservare ogni confezione alimentare,
nel giro di 2-3 settimane dovremmo rassegnarci a traslocare. Tutto questo non accade
perché buttiamo via e lasciamo che le discariche diventino quel luogo che
metaforicamente potremmo assimilare al «tappeto» sotto cui nascondere le nostre
vergogne. Buttiamo in discarica per non pensarci. Anche quando si riesce a riciclare ogni
materiale, comunque l’energia e le risorse impiegate per produrla sono esageratamente
sproporzionate al contenuto, visto che contengono semplicemente il cibo o le bevande di
cui ci nutriremo, per loro natura destinati a essere consumati piuttosto velocemente.
Un’inchiesta davvero notevole svolta sul problema dello spreco è quella fatta da
Legambiente e Altreconomia sulle bottiglie d’acqua, uno scandalo, forse un crimine,
commesso da tutti noi, quotidianamente. Si parla di un singolo prodotto, però molto
importante, visto che l’acqua fino a prova contraria cade dal cielo e la sua vendita in
bottiglia è il simbolo di questa nostra epoca sprecona e sconsiderata. Ogni italiano
consuma 194 litri all’anno di acqua in bottiglia. Un totale di 12 miliardi di litri d’acqua
imbottigliati in 350.000 tonnellate di PET che consumano 910.000 tonnellate di CO2. «Un
mare di plastica!». Tutto questo accade anche quando l’acqua potabile e fresca arriva
comodamente nel rubinetto di casa e, senza alcuna fatica, non dobbiamo fare altro che
riempire il bicchiere: anche in questo caso preferiamo la bottiglia.