Page 54 - Il mostro in tavola
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gesso romagnola è stato individuato come uno dei siti per la raccolta di piante ancestrali,
proprio perché mantiene una condizione semi-naturale, un buon equilibrio tra presenza
dell’uomo e della natura. Si parla di orzo, melo, avena selvatici presenti nel territorio
individuato per questa speciale ricerca.
Tutto questo coincide con le parole di Lester Brown: ci stiamo muovendo già oggi per
la ricerca di una soluzione nuova, un piano B, che non ripercorra strade già note. Mi viene
da pensare che stiamo iniziando a cercare le nuove sorgenti del cibo.
Ma non è detto che dovremmo abituarci solo all’idea di avere nel piatto sempre le stesse
piante, già conosciute. Potrebbe darsi che nel futuro mangeremo piante a noi estranee, o
meglio, piante di cui abbiamo dimenticato l’esistenza. Fino a 30-40 anni fa conoscevamo
molti nomi di piante commestibili e tra queste c’erano anche le piante selvatiche, poi,
piano piano, abbiamo perso queste informazioni fino a dimenticarci anche di quelle più
semplici come le stagioni e i relativi frutti.
Quelle piante selvatiche che per ora siamo abituati ancora a chiamare semplicemente
erbacce, probabilmente finiranno nei nostri piatti. Le erbe selvatiche, a differenza delle
piante coltivate, sono resistenti alle malattie, crescono con pochi nutrienti e di fatto
riescono a soddisfare le nuove esigenze dell’agricoltura del futuro: produrre di più e con
meno risorse, senza inquinare e con rese crescenti. Queste nuove coltivazioni di erbe
selvatiche sono le New Crop, ovvero tutte quelle coltivazioni nuove, tra cui le selvatiche
commestibili che non abbiamo addomesticato e che invece presentano delle grandi
potenzialità per le coltivazioni del futuro, rispondere al fabbisogno di cibo e ai
cambiamenti climatici. In Italia, ad esempio, sono 880 le specie di piante commestibili,
circa il 22% della flora, un patrimonio da cui potranno nascere le nuove coltivazioni di cui
ci ciberemo in un futuro con meno acqua e meno risorse disponibili.
Si cominciano a immaginare futuri possibili in cui il cibo verrà costruito in laboratorio,
oppure sarà diverso da come lo conosciamo.
Mentre scrivo è comparsa una notizia su tutti i maggiori quotidiani del mondo: è stato
realizzato il primo hamburger in laboratorio. Il processo in sintesi parte con una piccola
biopsia da due vacche, una di razza Blue belge e l’altra Blond acquitaine. Vengono estratte
le cellule staminali che verranno poi coltivate in vitro.
Il dottor Mark Post e il suo team di ricercatori dell’università di Maastricht sono partiti
da semplici cellule per riprodurre 20.000 fibre muscolari, in colture in vitro dove le
proteine crescevano sospese in un gel contenente antibiotici e siero estratto da feti di
mucca. Le fibre sono state poi compresse insieme e colorate con del liquido di
barbabietola, con dello zafferano, pan grattato e alcuni ingredienti finali per creare
l’hamburger. Scienza e arte culinaria per dare vita alla più grande e spettacolare ricetta di
sempre: l’hamburger sintetico. Il costo del progetto è stato di 250.000 euro, ed è stato il
co-fondatore di Google Sergey Brin a finanziarlo. Il milionario informatico ha dichiarato
che il motivo che lo ha spinto è legato al suo interesse per le tecnologie etiche in grado di
risparmiare agli animali sofferenze inutili. Altre ragioni che si aggiungono alla produzione
di carne sintetica, con un contenuto ecologico e fondamentali per rispondere agli obiettivi
di sfamare il pianeta: gli animali sono inefficienti a trasformare i vegetali in proteine, da
100 grammi di vegetali si ottengono solo 15 grammi di proteine. Crescere la carne