Page 427 - Sotto il velame
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Ma bisogna morire per fruire di questa vita: morire alla tene-
           bra, e riaver in atto la luce o la prudenza; morire al peccato, sì
           della carne, sì dello spirito; e riavere in atto le virtù di temperan-
           za, di fortezza, di giustizia.
              E l'uomo... o non più l'uomo, ma Dante, Dante si configura al
           Cristo, e muore come lui, e si fa viatore, nel mistico mondo, per
           divenire comprenditore e dire agli altri ciò che avrà compreso.
           Studia e ama. Muore alla carne o al peccato; muore alle sette feri-
           te mortali. Ora ha la virtù. Sana le sette cicatrici; coi sette doni
           dello Spirito si fa degno di sette beatitudini. Attraversa il fuoco,
           che monda il cuore e l'occhio, e si fa tutto puro. Di cieco è veg-
           gente, come di servo si è fatto libero. Ha obliato ogni resto del
           peccato. È giunto alla perfezione della vita attiva. Così può passa-
           re all'altra, alla quale è disposto dalla prima. Ha la sapienza e ha
           l'arte di rivelarla altrui. Può salire al cielo. All'ultimo la sapienza
           umana non basta più. Soltanto quella che vide gli abissi del miste-
           ro di Dio, può impetrargli la visione di Dio. E la sapienza umana
           è una frale donna di quaggiù, ch'egli amò e ama 1186 ; e l'altra, la di-
           vina, è pure un'umile donna, la moglie d'un fabbro Nazareno. Con
           l'amor per la prima si ha la filosofia degli uomini; con l'amor per
           la seconda, si ha quell'altra che in Dio è «per modo perfetto e
           vero, quasi per eterno matrimonio» 1187 .
              Come il Cristo punì in sè i peccati del mondo, così Dante in sè
           uccide e cancella e oblia tutti i mali dell'anima umana. Come S.
           Paolo, che salì, come lui, vivente al cielo, egli ha appreso altissi-
           1186   Mi pare verisimile che nel concepire le coppie Lia e Matelda, Beatrice e
              Rachele, Dante avesse nel pensiero l'essere, ognuna delle due mogli del Pa-
              triarca, con un'ancella; Rachele con Bala, l'inveterata, Lia con Zelfa, l'os
              hians. Io penso ai segni «veteris» flammae che Dante conosce all'apparir di
              Beatrice (Purg. XXX 48); io penso alla bocca di Matelda che si apre al can-
              to. Vedasi a pag. 445. Ne riparleremo. Ad ogni modo, qual trasformazione,
              sì di Bala e sì di Zelfa! E non voglio intendere che Dante imaginasse Bea-
              trice (tutt'altro!) su Bala e Matelda su Zelfa, ma che cogliesse qualche cen-
              no, qualche nota di simiglianza
           1187   Conv. III 12.


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