Page 27 - Sotto il velame
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perchè tanta viltà nel cuore allette ?
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si legge quello di paura. Vero è che Dante potrebbe dirmi,
è Cielo dovunque la Stella,
ma ciò non e converso ;
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e che, come nobiltà «vale e si stende più che virtù», così viltà si
stende più che paura; ma non forse vorrebbe dirlo qui, trattandosi
d'un linguaggio che non è più quel del Convivio, anche quando il
pensiero è lo stesso, chè nella Comedia egli parla per simboli evi-
denti e disegna e scolpisce figure, non scrive o dice soltanto paro-
le. Chè, per esempio, il timore da cui è preso Dante, quando è per
abbandonarsi della venuta, non è se non la mancanza di quello
spronare che bene ebbe di Silvio lo parente, sì che «sostenne solo
con Sibilla a entrare nello Inferno;» ma che Dante non sentiva
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ancora ai fianchi del suo cavallo, cioè dell'appetito.
A ogni modo, se Virgilio, per un supposto, avesse incontrato
Dante, mentre errava nella selva, qual parola crediamo noi che
avrebbe usata per rimproverar Dante? non forse questa, che qui
usa, di viltà? Che invero la donna gentilissima, nel rimproverarlo
in cima al santo monte, di quell'errore, non dice che quella dell'a-
mico suo fosse viltà, ma viene a dirlo, quando gli domanda quali
fosse avessero attraversata la sua via, sì che egli avesse disperato
di passare. Se viltà era il suo dubitare avanti l'alto passo, figuria-
moci se non era avanti una fossa! Altro che lo spronare di Enea
gli mancava! E concludo che Dante dice di sè che era, fin che fu
nella selva, vile; anzi, poichè la paura fu tanta, vilissimo.
Ebbene Dante chiama, nel Convivio, vile colui «che non aven-
do alcuna scorta, non fosse ben camminato»; e colui che l'ebbe,
«non vile, ma vilissimo». Il solo, dunque, fatto di non ben cam-
37 Inf. II 122.
38 Conv. Canzone Le dolci rime, Tr. IV.
39 Con. IV 26.
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