Page 197 - Sotto il velame
P. 197

gnanimità o fortezza; mentre è invece assurdo pensare che carat-
           terizzi il peccato dell'ira veloce e speditiva. Nè si dica che ben
           può significare l'ira, come si disse prima, che medita la vendetta e
           non la fa. Come, anche ammettendo che quella si possa chiamare
           ira, come Dante che già degli altri peccati capitali ha data la figu-
           razione etica precisa e intiera e generale, così, per esempio, da
           tradurre tanto chiaramente nel quarto cerchio e nel quinto il detto
           del   mistico   «che   l'accidia   dà   all'anima   dolore,   e   l'avarizia,
                  463
           fatica» ; così per esempio, da porre nel medesimo cerchio, in
           balìa del medesimo vento la vinta da un punto e la legislatrice del
           vizio; qui l'ira significherebbe in una sua forma secondaria e im-
           perfetta? Qual definizione potremmo noi raccoglierne? Questa:
           l'ira è quel peccato per cui non si lascia buona memoria di sè.
           Questa: l'ira è quel peccato per cui si medita la vendetta e non si
           fa. Ma tutto è piano e ragionevole, se diciamo: L'accidia è quel
           peccato per cui non si lascia alcuna buona memoria di sè; ed è,
           questo peccato, non solo dei timidi e dei lenti, ma di tanti altri au-
           daci e bizzarri e orgogliosi, che paiono il contrario dei primi e su
           per giù sono tali e quali.
              Ma Dante dice: color cui vinse l'ira. Dice: ira, ira, ira. Dunque
           è ira, quella del quinto cerchio, checchè si sofistichi e si sottilizzi:
           ira e non altro.
              E allora anche Virgilio, il quale sta coi parvoli innocenti e fuo-
           ri che le tre virtù sante ebbe tutte le altre, anche Virgilio è reo d'i-
           ra e dovrebbe rissare e percotere o percotersi nel pantano? Egli in



           463   Hugo de S. Vict. All. in N. T. II, 5 «Acedia igitur animae dolorem facit,
              avaritia laborem, quia illa per tristitiam afficit, ista per varia desideria
              scindens in laboriosos conatus extendit». Altro da lui ha preso Dante, e an-
              che, forse, la doppia manifestazione dell'accidia che è definita «tedio dell'a-
              nima... quando ella, perduto il suo bene, rimane solitaria e abbandonata e si
              muta sibi ipsi (in sè medesima) in amaritudine e dolore». Dolore è quello
              dei tristi, amaritudine, quella dei rissosi. Non pare? E ciò non esclude l'e-
              quazione filosofica di accidia uguale a difetto di fortezza


                                         197
   192   193   194   195   196   197   198   199   200   201   202